Archivi autore: Fabio Gasparrini



Mezzo prodotto.

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La valigia di Mandarina Duck è in vetrina, grossa e colorata, col suo logo bello grosso, stampato a rilievo nella plastica. Non a caso, il modello si chiama Logoduck. Entro, chiedo al commesso di vederla meglio. Il colore è un po’ troppo acceso per i miei gusti, ma la valigia sembra solida e ben fatta, non c’è che dire. D’altro canto, Mandarina è un marchio di qualità. Bene, concludo, ma 179 euro mi sembrano un po’ pochini. Prego?, fa il commesso stupito. Beh, viaggio spesso, grandi aeroporti e grandi stazioni, ho un bacino di visibilità abbastanza ampio. Scusi? Fa il commesso sempre più interdetto. Calcolo a spanne le migliaia di contatti potenziali che posso generare: per meno di 250 euro, non se ne fa niente. All’anno, naturalmente. Ma signore, non ha capito – balbetta il commesso – è lei che deve pagare! E improvvisamente, sono io che non capisco. Cosa dice? Un’azienda mi vuole usare come mezzo per veicolare il suo marchio, senza pagare un euro? Anzi, addirittura chiedendomi dei soldi?

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Che uno dei successi del brand system sia quello di veicolare gratis il proprio marchio, non è una novità. Il diritto di firmare il proprio prodotto è sempre esistito, e Mandarina Duck non è certo la prima né l’unica a farlo. Ma con gli anni, certi brand moda sono riusciti a rendere il proprio marchio l’unica ragion d’essere. Vuitton e Gucci hanno segnato la strada, e i clienti strapagano le loro borse per potere farsi vedere coi loro marchi. Un meccanismo premiante in termini sociali, economici, di immagine. Oggi, in molti casi, il brand non è più la firma del prodotto, è il prodotto. Magliette di fattura dozzinale sono sfoggiate con orgoglio perché riportano in grande le scritte Tommy Hilfiger, o Abercrombie, oppure D&G.

Resta il dubbio della piccola provocazione all’inizio di questo post. Quando il prodotto diventa mezzo, non dovrebbe valere la metà? E ora, pubblicità.



Energie a confronto.

È di questi giorni il duello sui media fra Enel ed ENI. Due pesi massimi dell’energia, purtroppo – o per fortuna – entrambi di proprietà pubblica. Entrambe le campagne sono istituzionali, vale a dire non tese a vendere un prodotto (un’offerta, un nuovo contratto) ma l’istituzione stessa. Colpisce la quasi simultaneità (Enel è on air da un mese, ENI da pochi giorni), che induce a qualche riflessione, e a un inevitabile confronto.

Le due campagne sono ovviamente lavori di grande professionalità, ed entrambe molto ben scritte – notazione da vecchio (?) copy. ENI più classica e focalizzata sulla ricerca come mission aziendale, con il claim Rethink energy. Agenzia TBWA\Italia, art director Chiara Giannuzzi e Michele Marconi, copywriter Raffaella Iollo e Arnaldo Funaro, direttore creativo Fabrizio Caperna.

Enel più socialmente impegnata, con il suo appello ai guerrieri della vita quotidiana, e alle loro storie. Agenzia Saatchi & Saatchi, art director Manuel Musilli, copywriter Antonio Di Battista, direttore creativo Agostino Toscana.

Enel decide di mettere un piede nei social media con l’hashtag #guerrieri, e lo mette invece su una buccia di banana. Perché se la gente è smaliziata i social networker lo sono ancora di più, e la campagna è diventata quello che in rete definiscono epic fail, sollevando polemiche di ogni genere. Non solo da parte degli spettatori, che hanno il sospetto dietro all’omaggio ci sia un pizzico di sfruttamento commerciale, e di indelicatezza visto il dramma economico che stanno vivendo tutti i #guerrieri. Ma anche dai fornitori di altri servizi, offesi perché lo spot accenna (anche) ad autobus che non arrivano mai. Morale: sono tutti arrabbiati, e non si contano in rete gli interventi polemici. L’azienda si difende con apparente sicurezza, e certo molte delle polemiche appaiono forzate. Ma resta il sospetto che vinca il principio del “bene o male, purché se ne parli”. E che forse l’operazione sarebbe stata più rotonda, se il sostegno ai #guerrieri fosse stato sostanziato con un’offerta ad hoc.

Al contrario, ENI non chiede interattività, e comunica unidirezionalmente, alla vecchia maniera, pur con un minimo supporto digitale. Io azienda parlo (con la voce di Toni Servillo), tu consumatore ascolti. Ma in questo caso l’approccio classico è premiante, anche in termini di immagine, che ne esce più forte e più alta. La conclusione è che l’interattività, come l’energia, è un bene prezioso. Usiamola con parsimonia. E ora, pubblicità.



Digitale, mon amour.

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Mi rendo conto di avere opinioni molto contro tendenza. Ma l’improvviso amore di tante aziende per la comunicazione non convenzionale è sempre ricambiato dal mercato? Le nuove case history, quelle che vincono a Cannes, non puntano sui mezzi classici, che sembrano in via di abbandono (ultimi dati: -24% per quotidiani e periodici, -15% per TV nel periodo gennaio-luglio 2013 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente). Sono piuttosto operazioni interattive, virali o pseudovirali, largamente appoggiate sui social network.

Due dubbi. Il primo, quantitativo. In un recente articolo, Advertising Age cita dati Nielsen per notare che i video in Rete totalizzano solo il 2,3% del totale del consumo audiovisivo (almeno negli USA), e si chiede se gli investitori non stiano mettendo sul digitale troppi soldi, e troppo in fretta. In altre parole, i numeri dicono che la vecchia TV è tutt’altro che morta, e non lo sarà ancora per un bel po’ di tempo.

Certo, le 72 milioni di views vantate da Intel e Toshiba per l’operazione The Beauty Inside fanno impressione. Ma ne fanno meno se si pensa che sono i numeri di una grande campagna internazionale, e che un inserzionista del Super Bowl raggiunge 110 milioni di telespettatori, tutti in una sola serata. Online c’è l’engagement, l’interattività, d’accordo. Ma quanti di quei viewer sono davvero interattivi? Poco più di un terzo, dicono gli autori. Ma chi pensa che quelli online siano contatti gratuiti, se lo levi dalla mente: perché un virale raggiunga quei numeri, c’è bisogno di corposi investimenti in seeding. Come dicono gli americani, che di soldi se ne intendono, there is no such thing as a free lunch.

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Il secondo dubbio è qualitativo. C’è davvero una idea memorabile? Restando all’esempio fatto, un’operazione così ambiziosa e articolata, che si svolge nell’arco di 2-3 mesi, riesce a comunicarmi un insight potente? Il concetto che la vera bellezza sia dentro – con ovvio riferimento al processore – mi sembra debolino, e un po’ scontato. Ma se uno strumento di ADV classico è obbligato alla fulminea sintesi dell’impatto, un’operazione così dilatata e interattiva si perde inevitabilmente un po’ per strada. Siamo sicuri che il risultato finale mi convinca che il bello di un computer è il processore? Questo mi spinge davvero a desiderare il prodotto? E soprattutto, sedimenterà nel tempo come identità di marca?

La risposta, diceva Corrado Guzzanti, è dentro di te. Ed è sbajata. Resta il fatto che, come notava giustamente Francesco Taddeucci in un post nel suo blog, quelle che generano uno strumento ADV tradizionale e un’operazione interattiva online sono creatività differenti. Più orientata alla sintesi e all’impatto la prima, più analitica e strutturalista la seconda. Che convivano, è difficile. E ora, pubblicità.



Produzione, chi l’ha vista?

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In tempi di quantità, spesso a rimetterci è la qualità. Siamo sommersi di video, spot, virali, clip, ma raramente si sente lo spessore di una produzione curata. Cioè di una bella fotografia (in senso cinematografico), di un montaggio curato, di una musica che sfugga i cliché. Prevedo l’obiezione: oggi la freschezza del video autoprodotto, low cost, virale non usa più la grammatica cinematografica classica, e compensa con freschezza e creatività l’assenza di quelli che un tempo erano canoni estetici inderogabili.

Questo può essere stato vero, ed è ancora vero in certi casi. Ma a) questa voluta trascuratezza sta a sua volta diventando un cliché, in cui tutti i video si rispecchiano, sempre più uguali; b) non è che si vedano queste grandi idee, a compensarne la bruttezza.

La mia idea è che sia cambiato il tipo di committente, e di parecchio. Un tempo a potersi permettere la pianificazione tabellare di uno spot erano grandi aziende. Se investivano qualche miliardo (di lire) in spazi, trovavano accettabile spendere qualche centinaio di milioni (di lire) per realizzare uno spot curato. Talvolta i risultati erano discutibili, altre volte erano invece discutibili i costi di produzione. Ma esisteva comunque una cultura della comunicazione, un patrimonio di conoscenza, un rapporto cliente-agenzia che disciplinava il lavoro e fissava delle regole, anche formali.

Oggi qualunque azienda, anche piccolissima, anche un parrucchiere o un ristorante etnico, può farsi prendere dall’ebbrezza della comunicazione e realizzare (o farsi realizzare) un video o un piccolo spot, caricarlo su YouTube, sulla propria pagina Facebook o sul proprio sito web, e sperare in una diffusione virale, aggratis o quasi. E se i mezzi sono gratis, è difficile giustificare un costo di produzione anche contenuto. Le produzioni quindi diventano a loro volta gratis o quasi, qualunque cifra sembra spropositata, e quelle che un tempo erano scelte stilistiche neopauperiste diventano necessità.

Un bilancio, è difficile farlo. La cosa bella è che l’audiovisivo è oggi un mezzo alla portata di tutti. Dall’altra parte, la cosa brutta è che l’audiovisivo è oggi un mezzo alla portata di tutti. E ora, pubblicità.



Elogio della leggerezza.

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Un post ormai agostano, fuori tempo massimo, per sfiorare appena un tema leggero come la leggerezza. La campagna che vedete risale al 1994 ed è firmata da Sandro Baldoni e Lele Panzeri per Il Manifesto. Il titolo recita “Una foto di Toscani per il nuovo Manifesto”, e il visual non ha (non dovrebbe mai avere) bisogno di spiegazioni.

Un piccolo divertissement, condito con un po’ di sarcasmo irridente le mode imperanti. Con buona pace dei posizionamenti, delle strategie, della brand identity. Ma con impatto, coerenza, e con quel pizzico di sano divertimento che un tempo faceva (ogni tanto) parte del nostro lavoro di comunicatori. Dunque si può? Si può, si poteva, si potrebbe ancora. Qualche volta, si deve. Giusto per ricordare – a noi che la facciamo, a chi ce la commissiona e a chi ogni tanto la legge – che la comunicazione non dev’essere sempre lacrime e sangue.

Buona estate – leggera – a tutti.



Il Cliente ha sempre ragione (1).

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Stavo lavorando a un post serioso, ma poi mi son detto che tutto sommato è venerdì, e possiamo anche chiudere la settimana con un sorriso. Forse qualcuno di voi li avrà già visti, ma c’è chi si è preso la briga di impaginare in poster di fantasia alcune delle richieste più stampalate fatte dai Clienti alla loro agenzia. E sembra che queste richieste siano tutte autentiche.

Ne posto uno non a caso, visto che la settimana appena trascorsa è stata fortemente influenzata dai colori. Ne posterò altri, in futuro. Come dite? Che i Clienti siete voi? Motivo di più per sorriderne, e augurarvi un buon uichend. E ora, pubblicità.



Il misterioso caso della comunicazione moda.

La faccia rabbuiata di un uomo mi guarda dalla pagina di un quotidiano. Ha la barba mal fatta, lo sguardo torvo e un’espressione annoiata e scontenta. È vestito in modo ricercato, ma questo fatto non lo rasserena.

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Perché i modelli delle pubblicità di moda debbano sempre avere quest’aria infastidita, è un mistero. Così come è un mistero l’eccezione-moda sul pianeta della comunicazione. Nessuna parola scritta, nessun concetto illuminante, nessuna idea. Nessun tentativo di posizionare il marchio in modo univoco, se non il prodotto stesso, spesso marginale rispetto ai modelli (talvolta testimonial famosi, ma comunque imbronciati). E il brand, il verbo, che domina la pagina o lo spot.

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Evidentemente, manca qualcosa: un’idea, possibilmente congruente. Una possibile spiegazione sta nel fatto che chi fa moda è a sua volta un creativo, e non capisce perché mai dovrebbe avvalersi di un altro creativo per curare la sua comunicazione. Poi, la moda tende a costruire rapporti privilegiati con fotografi, spesso bravissimi nel loro mestiere, che sono a loro volta dei creativi, e fertili produttori di idee visive. Il brief viene così risolto fra stilista e fotografo, e si risolve con qualcosa tipo “Fotografiamo lui appoggiato al muro di una fabbrica abbandonata”. “Geniale”. Bellissimo, ma cosa vuol dire? Che senso ha? In questo scambio di idee, un creativo pubblicitario minimamente professionale farebbe la figura dell’account noioso, chiedendo timidamente “Scusate, ma cosa vogliamo comunicare?”

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Nella storia della comunicazione moda, le eccezioni sono pochissime, e infatti sono le uniche che si ricordano. La bellissima campagna per Loro Piana firmata Pirella Gottsche, con l’inarrivabile snobismo dell’uomo con la scarpa bucata. Delle belle campagne per Krizia, della stessa agenzia. Ma restano appunto eccezioni, e di vent’anni fa. Oggi, fanno eccezione solo il casual e lo sportswear, dove infatti un paziente lavoro di posizionamento e la creatività sono riusciti a creare nel tempo delle belle case history (vedi Freddy o North Sails, o il bellissimo lavoro per il lancio di Armani EA7, per non parlare dei superbrand come Diesel, Lacoste, Nike o Adidas).

Resta il fatto che quello fra moda e comunicazione creativa sia un matrimonio mai realmente consumato. Ed è un peccato, perché l’industria moda resta una delle poche eccellenze italiane – e una delle pochissime big spender – dove insieme a un prodotto eccellente potremmo esportare nel mondo anche eccellenti idee di comunicazione. E ora, pubblicità.



Punto.

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Per molti, il punto fermo alla fine dei titoli è un trauma non ancora superato. Alcuni dei miei clienti soffrono visibilmente, e chiedono “Ma non si potrebbe levare, il punto?”. Provi a levarlo, e improvvisamente il titolo sembra volare via, come un palloncino.

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Evidentemente, il punto non è il punto. E non basta il punto a nobilitare un titolo moscio. Ma resta il fatto che il punto fermo sembra avere introdotto una possibilità di pensiero in quelli che prima erano solo slogan. Introdotto fin dagli anni ’60 nella pubblicità moderna (c’è chi lo attribuisce al solito Bernbach), il punto rende il titolo più drammatico e impattante. Più rilevante, e definitivo. Costituisce un appoggio, suggerisce una pausa e una riflessione. O meglio: come fanno notare Valeria della Valle e Stefano Patota nel loro “Viva la grammatica!”: “Il punto, la virgola e gli altri segni di interpunzione non producono una pausa, ma segnalano una pausa prodotta dal significato del testo.” Come se il nostro punto dicesse “Ehi, quello che hai appena letto dovrebbe farti riflettere. Fermati un attimo, mettila in relazione con le immagini, e assorbila.”

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L’uso del punto non dipende dalla lunghezza del titolo. Viene più naturale se il titolo è una frase compiuta, un’affermazione. Ma impone attenzione anche alle singole parole (non citerò ancora la solita campagna “Lemon”, ma la celeberrima Pomì, copywriter Pino Pilla, agenzia Pirella Goettsche). Certo, se il titolo è un non-titolo, o semplicemente il nome del prodotto, non ha molto senso. Ma se stiamo cercando di dire qualcosa di rilevante, un punto fermo può dare alle nostre parole la forza di un maglio.

Nella tradizione editoriale, il punto nei titoli non si usa. Usato nel testo, può imporre alla lettura una continua scansione, legando i periodi e rendendoli più incalzanti (basta non abusarne, come spesso fa il politologo Ilvo Diamanti nei suoi articoli). Gli americani ci credono molto, al punto. Lo hanno messo dopo la semplice parola “Forward.” (avanti) nella campagna di Obama del 2012 (ne parla qui il blog di Annamaria Testa). Ne scrivono con passione qui. E festeggiano addirittura ogni anno il Giorno della Punteggiatura.

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Il punto fermo fa parte addirittura del logotipo di alcuni marchi famosi, come The Wall Street Journal, Deloitte, Loewe. Troppo? Troppo. Lasciamo il punto alle parole che fanno pensare, e soprattutto cerchiamo di scriverne. E ora, pubblicità.



Il nuovo che avanza.

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Quelle che vedete sono le offerte di lavoro che fanno capolino in questi giorni su un frequentatissimo blog. I suoi lettori non sono nerd o smanettoni, ma un più generico  “popolo della comunicazione” che riunisce creativi e account, sia dentro le agenzie (sempre di meno) che fuori (sempre di più). Anche per questo, l’elenco dei profili richiesti fa ancora più impressione.

Che l’industria della comunicazione sia in crisi nera, non è un mistero per nessuno, e non è questa l’occasione per ricostruirne i motivi. Sta di fatto che si è liberata negli ultimi anni di circa metà dei suoi addetti, principalmente per cause economiche: art, copy, account, planner, eccetera. Quasi tutti avevano posizioni senior. Molti sono ancora su mercato come consulenti, moltissimi fanno semplicemente altro. I grandi gruppi si sono buttati a corpo morto sul digitale, l’unico comparto che offra in questo momento qualche prospettiva di crescita. Il risultato, è un ricambio generazionale a tappe forzate.

Non voglio storcere il naso davanti a questa accelerata rivoluzione digitale della comunicazione. Anche perché esistono realtà di ottimo livello, che spesso fanno un egregio lavoro in termini creativi e tecnologici. Né sono qui a celebrare i funerali della pubblicità come io l’ho conosciuta, o a rimpiangere i bei tempi andati. L’advertising ha avuto le sue colpe, e questo svecchiamento è per certi versi salutare.

Ma insieme all’acqua sporca, è stato gettato via anche il bambino. Questa decapitazione di massa, insieme a una generazione di professionisti, ha cancellato anche una scuola. Una scuola fatta di tempi, flussi, procedure, analisi, know-how e buone maniere. Una scuola fatta di disciplina, di pensiero strategico, di capacità di visione, di paziente costruzione di identità di marca. Questa scuola, formata in Italia negli ultimi decenni del secolo scorso, sta sparendo per sempre, e qualcosa mi dice che la rimpiangeremo. E ora, pubblicità.



Marchi nella nebbia.

Parlando di coerenza e di identità di marca, stento a seguire quella di Almo Nature. Più che un posizionamento univoco, sembra inseguire delle mode, peraltro già invecchiate. Nel 2010, una incomprensibile campagna firmata da Oliviero Toscani (un mediocre fotografo che inspiegabilmente viene ancora intervistato dalla stampa pigra come “pubblicitario”). Non la commento, sarebbe come sparare sulla croce rossa. Noto soltanto il patetico gioco di parole amore/almore/almo nature, e riporto le parole del guru: “Dietro questa campagna c’è un’idea e in quanto tale non ha nome. E’ emozione, è sensazione e desiderio: è filosofia. La filosofia di un’azienda che crede nella forza delle idee e dell’interpretazione personale.” (qui la fonte della citazione). Mi viene in mente il Briatore di Maurizio Crozza e scuoto tristemente la testa.

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L’anno dopo, qualcuno si ricorda che una campagna pubblicitaria dovrebbe forse anche vendere qualcosina, e mette in mano a una donna-gatto una busta di prodotto, elevando la campagna dall’incomprensibile al grottesco. Il risultato è raggelante.

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Quest’anno, si cambia registro. L’idea è quella di affidarsi alla sand artist Ilana Yahav. Idea non orginalissima, visto che l’artista era stata già cooptata per una visibilissima campagna ENI del 2010. È uno di quei casi in cui lo stile dell’artista prevale sul messaggio e sul brand: col risultato che adesso, guardando in TV i nuovi spot Almo Nature, sembra di vedere ancora ENI. Il posizionamento, ancora nella nebbia.

Cosa c’entrerà mai la nuova campagna con l’almore toscaneggiante? Qual è il fil rouge che dovrebbe condurci per mano? L’anticonvenzionalità riciclata? Se il concetto strategico è la naturalità, stento a trovarla in quei lugubri nudi con teste di animali, che non basta la parola amore a scaldare. Né la trovo nella comunicazione attuale (se non altro più morbida nel tone of voice), infarcita com’è di dati e percentuali.

Peccato, perché Almo Nature è un prodotto di qualità, e meriterebbe una comunicazione all’altezza. Forse il suo marketing dovrebbe affidarsi meno alle mode, e più a una solida strategia di marca. E ora, pubblicità.