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Questo Blog raccoglie una serie di articoli pubblicati fra il 2014 e il 2020 su vari temi legati alla comunicazione. Si tratta di riflessioni e appunti personali, che rappresentano soltanto il mio pensiero e non impegnano necessariamente l’agenzia che ho fondato.

Fabio Gasparrini



Great ads for great ads.

Dopo le campagne nella versione per i premi (marchio piccolissimo e via tutto quel testo, che confonde). Dopo le campagne fasulle solo per i premi (brief autoassegnati e pianificazioni inesistenti). Dopo una lunga serie di microeventi, flashmob, activation a impatto zero, pensati solo per i premi (la cui case history veniva vista da qualche migliaio di persone su YouTube). Dopo la nascita dell’industria del case video (con i suoi registi specializzati, e budget non irrilevanti a disposizione), siamo arrivati finalmente all’apice del cortocircuito autoreferenziale: il premio al case video. Non all’operazione sottostante, ma proprio alla realizzazione del video che racconta la case history. 

Il prestigioso Cresta Award, in crisi quest’anno per colpa della pandemia come tutta l’industria dei premi, scrive che molti dei partecipanti hanno chiesto ai giurati di valutare la produzione stessa dei case video, che con un pizzico di ironia il premio definisce “great ads for great ads” (“grandi annunci per grandi annunci”), e indica la sua shortlist. Non voglio entrare nel merito dei progetti, alcuni sembrano essere vere campagne integrate con un ragionevole media mix e dei numeri rispettabili, altri degli evanescenti sforzi creativi di cui è difficile trovare traccia ed effetti.

Quando sono nati, i premi dell’advertising avevano una logica: quella di premiare l’eccellenza creativa, gratificando da una parte i creativi più bravi e dall’altra i clienti più virtuosi, e incoraggiando entrambi a perseverare. Nel tempo sono cresciuti e si sono moltiplicati, innescando colossali giri di denaro e diventando la droga con cui venivano pagati i giovani creativi in agenzia, nonché la misura del successo dei suoi dirigenti, costretti alla competizione costante con le altre agenzie del network. Per salvare e far prosperare questa Disneyland, nuove categorie sono state create, e le maglie della tolleranza rispetto all’effettiva rilevanza dei progetti sono state allargate. 

Oggi, l’ultimo segnale della decadenza del sistema: il riconoscimento alla comunicazione sulla comunicazione. Il prossimo passo potrebbe essere un premio al miglior comunicato stampa alle testate del settore. I clienti hanno smesso da tempo di crederci, ma i creativi?

E ora, pubblicità.



You can’t manage what you can’t measure. O l’illusione del controllo assoluto.

Qualche tempo fa mi è capitato sott’occhio l’ultimo Master UPA. L’UPA è l’associazione che riunisce le maggiori imprese che investono in comunicazione, quindi praticamente l’UPA è il Cliente per definizione. E se organizza un Master, lo fa per formare le nuove generazioni del marketing.

Sulla copertina del programma del Master in Big Data High Performance spicca una frase: “You can’t manage what you can’t measure”. Non mi sfugge l’importanza dei dati in una sana attività di management, eppure credo che in quella frase sia racchiusa buona parte dell’equivoco dei nostri tempi. L’illusione del controllo assoluto.

Sarebbe come dire che non si può fare del buon sesso se non misurandosi continuamente la lunghezza del membro, o la frequenza del battito cardiaco. Come se l’istinto e la nostra naturale sensibilità non esistessero. È anzi probabile che in quel caso l’ansia da misurazione porti a una performance modesta.

Per fortuna, non tutto è riconducibile a un algoritmo. Anche nel marketing, esistono l’intuito, il buon gusto, il buon senso, il bello senza un motivo, l’argomentazione che rassicura e quella che convince. Scelte che magari costruiscono risultati e solidità sul lungo termine, ma che non sempre sono misurabili sul breve. Nessuna delle grandi campagne che hanno fatto la storia dell’advertising è nata da un numero.

Eppure questi sono oggi argomenti perdenti. Nulla suona più affascinante (e moderno), alle orecchie di un management spesso insicuro delle proprie opinioni, del dato aggiornato, del magico e rassicurante numerino. Anche perché a sua volta il management viene valutato sul breve, anzi brevissimo orizzonte. E in questa brevità, s’annega il pensiero profondo.

E ora, pubblicità.



Andate, mescolatevi e create.

photoshop

Quando apro Photoshop – applicazione professionale per il trattamento delle immagini, copia legalmente e salatamente acquistata – appare per qualche secondo una piccola finestra azzurra con la versione del programma e i credit, ovvero i nomi degli sviluppatori che “firmano” il software per conto di Adobe, azienda leader nel settore delle applicazioni per la creatività.

La mia versione del programma conta 68 nomi e cognomi. È interessante leggerli. Di questi, soltanto 41 (il 60% del totale) suonano anglosassoni. I restanti 27 sembrano provenire da ovunque nel mondo. Ne ho contati 8 cinesi, 4 indiani, 3 giapponesi, 2 russi, 2 di antico ceppo inglese, 2 polacchi, un turco, un finlandese, un bulgaro, un malese, un italiano.

È probabile che la maggior parte siano cittadini statunitensi. Probabilmente i loro padri, o i loro nonni sono arrivati in America come immigranti. Altri hanno esotici nomi di battesimo, e questo induce a pensare che siano americani di cittadinanza molto più fresca. Non parliamo di manodopera sottoqualificata, ma di geni informatici che lavorano per Adobe, colosso del software con sede a San Josè, California. Uno dei simboli più recenti – insieme a Apple, Google, Facebook eccetera – della nuova creatività digitale americana, alla conquista del mondo.

Fa pensare quanto allegramente e positivamente contaminata sia la cultura e l’industria americana. Anche e soprattutto quella di punta. E dovrebbe far pensare anche chi a casa nostra, ancora occupa le piazze in difesa di una identità culturale che sarebbe bello immaginare legata a valori profondi, e non al colore della pelle o alla religione.

Cosa c’entra tutto questo con la creatività? C’entra, per il sospetto – o se vogliamo la certezza – che l’omologazione ne produca poca. E che invece la diversità produca stimoli, connessioni, idee nuove. In una parola, creatività. Tutto questo, alla vigilia di un atto con cui il presidente americano Obama intende regolarizzare 5 milioni di immigrati che vivono e lavorano da anni negli USA. Un atto profondamente creativo. È ora, pubblicità.



Natale a Siena.

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Non è l’ennesimo polpettone natalizio, ma fa ridere lo stesso. La trama è la gara indetta dal Comune di Siena per il “servizio di promozione e divulgazione” degli eventi natalizi. Non sarà una megacampagna, ma stiamo sempre parlando di Siena, una città che è un brand conosciuto in tutto il mondo.

Nel capitolato, vengono elencate le attività oggetto dell’incarico: principalmente attività di ufficio stampa (comunicati, recall, conferenza stampa, raccolta rassegna stampa, eccetera). Tutto abbastanza chiaro. A questa si aggiunge la realizzazione di video: non viene specificato quanti, ma devono servire ad alimentare i contenuti dei 7 canali social del Comune, a documentare gli eventi (circa 200) e diventare contributo giornalistico per reti televisive e radiofoniche. Qui sorge il primo dubbio: se voglio partecipare, devo mettere in conto la produzione di audiovisivi. Non so quanti, né quanto lunghi, né dove andranno in onda. Musiche? Speaker? Diritti? Nebbia fonda, e sì che a Siena capita di rado.

Continuando a leggere, mi imbatto nella formula “individuazione dei programmi televisivi e radiofonici, anche nazionali, idonei a promuovere la manifestazione e conseguente attivazione dei contatti per la realizzazione degli spot”. Da qui, procedo a tentoni. Se si parla di “spot” non si intendono redazionali, ma pianificazioni tabellari. Si allude a una pianificazione media? Alla scelta di una casa di produzione? Esiste un budget da investire? E a quanto ammonta, di grazia?

Arrivo infine alla “collaborazione con le radio e le televisioni locali per la realizzazione degli spot idonei a promuovere la rassegna”. Cosa vuol dire collaborazione? Chi fa cosa? Un barlume di strategia di comunicazione? La creatività? La produzione?

Ogni gara d’appalto pubblica prevede un responsabile del procedimento, e questo ingrato onere è capitato al Dott. Guglielmo Turbanti. Il povero Dott. Turbanti è stato informato male, o non è stato informato affatto di come funziona la faccenda. A cominciare dalla terminologia. Ha forse qualche esperienza di Ufficio Stampa (a proposito, il Comune ne ha uno interno, perché non usa quello?) ma zero di produzione, pubblicità e comunicazione.

Da cosa lo intuisco? Da troppe cose, ma soprattutto dalla cifra allocata per l’intero servizio: 9.000 euro. Supponiamo che io partecipi (e vinca) con un ribasso del 15%, diventano 7.650. Un compenso sufficiente forse per la sola attività di Ufficio Stampa (e anche risicato, visto che le conferenze stampa potrebbero anche essere due o tre, come avverte il Capitolato). E gli n video? Li gira uno stagista col telefonino? Massì, siamo in tempo di tecnologie diffuse, questi ragazzi sanno far tutto con niente. E la creatività per gli spot? Ma si collabora con le televisioni private, no? Che ci vorrà mai a farsi venire un’idea? E la produzione, come sopra. Musiche di library, e lo speaker lo fa mio cugino.

Come è evidente – prima ancora che il budget – il problema sta nelle competenze, nel loro valore e, in generale, nella totale assenza di una cultura in materia. Qualcuno dovrà spiegare al Dott. Turbanti che fare comunicazione è un’attività delicata e molto professionale. Che una brutta comunicazione non solo non raggiunge i suoi obiettivi, ma fa dei danni al brand (in questo caso, la sua città) difficilmente risanabili. Che uno spot si può anche girare con un iPhone se dietro c’è un’idea forte, ma che a produrre idee forti sono professionisti della comunicazione, creativi di esperienza e di talento. E che questo talento vale qualcosa di più degli spiccioli che resterebbero in fondo al cassetto (d’altro canto, il fattore “esperienza” pesa per il 20% sul punteggio di gara, a fronte del 40% dello sconto offerto). Sia chiaro, non ce l’ho con Siena né personalmente col Dott. Turbanti, che è sicuramente una brava persona. Casi analoghi affiorano continuamente a ogni livello della Pubblica Amministrazione. Ma perché il pubblico deve fare sempre questa figura?

Le conseguenze? Il Comune di Siena avrà in cambio di pochi soldi un prodotto scadente. E questo non per colpa dell’agenzia che malauguratamente dovesse vincere la gara. Ma perché per rientrarci dovrà fare acrobazie, cercare scorciatoie, accettare compromessi e rinunciare a coinvolgere dei professionisti di livello.

Le soluzioni (per il futuro)? Per cominciare, sarebbe il caso che chi compra un servizio (coi soldi del contribuente), sapesse cosa sta comprando. Se vado al mercato per comprare un diamante con 10 euro e trovo qualcuno che davvero me lo vende, non ho fatto un buon affare: sto solo portando a casa un fondo di bottiglia. Bisognerebbe quindi sapere qualcosa di marketing e comunicazione. Ogni azienda ha un Responsabile Marketing, perché non un brand così importante?

Secondo: sapere chi fa cosa. L’Ufficio Stampa lo può fare un’agenzia di PR, per realizzare dei video giornalistici (e non degli spot) va benissimo un giornalista freelance, per creare degli spot ho bisogno di un’agenzia di comunicazione (o in alternativa, di una coppia esperta di creativi freelance), per produrli di una casa di produzione, anche minima. Troppe professionalità diverse e specifiche, per dividere una torta grande come un pasticcino.

Terzo: resistere all’ingordigia. Se fisso il prezzo del pasto e continuo ad aggiungere piatti al menù, non sono furbo: sto solo obbligando l’oste ad allungare il vino con l’acqua, altrimenti i conti non tornano. Quindi, se il budget è risicato, meglio fare poche cose bene, che pretenderne troppe fatte male. Più che buonsenso, è matematica. E ora, pubblicità.



Buona estate.

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Questo Blog va in ferie, e vi saluta con un altro poster della fertile e divertentissima serie “I peggiori commenti fatti dai Clienti”, questo sulla illimitata fiducia nelle possibilità della postproduzione. Aspettando che qualche azienda si decida a produrre un’analoga serie sui peggiori commenti fatti dalle Agenzie, che sicuramente non mancano. Buona estate a tutti, e a rileggerci in settembre. E ora, vacanze.



Il mio primo cliente.

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E’ venuto a mancare Stefano Bonilli. Giornalista e gastronomo, precorse quei concetti di qualità e territorio che oggi sono di moda, ma venticinque anni fa lo erano molto meno. Lo Slow Food non era ancora nato, e lui aveva creato per Il Manifesto un supplemento dedicato al mangiare e bere bene: Il Gambero Rosso. Sdoganando agli occhi della sinistra una cultura e dei valori che fino a quel momento erano sembrati perdutamente borghesi. Il Gambero era Rosso, almeno.

Il Gambero Rosso era uno dei clienti della prima agenzia milanese in cui ho lavorato, la Catullo & Sylwan. Correva l’anno 1990, e la prima campagna stampa che mi fu chiesta fu proprio un autoannuncio da pubblicare sulle pagine interne del Gambero. Me ne è rimasta solo una fotocopia in bianco e nero, e la vedete qui sotto. L’annuncio era molto ingenuo, e il titolo un gioco di parole, come capita spesso ai copy alle prime armi. C’era il coupon da ritagliare, e nonostante fosse un autoannuncio con budget media zero si trovarono il tempo e i denari per commissionare una piccola illustrazione fatta ad hoc. Impensabile al giorno d’oggi.

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Quando al cliente fu presentata la creatività e la mia bodycopy, il direttore creativo dell’agenzia, Guingo Sylwan, mi fece chiamare ai piani alti. Bonilli voleva sapere chi aveva scritto quella pagina, e mi restituì il mio foglio pieno di correzioni in rosso. Da buon direttore di giornale, aveva corretto il mio testo parola per parola. Ero convinto di sapere scrivere benino, e avvampai. La maggior parte erano opinabili sfumature di forma, ma un paio erano proprio errori, che vergogna. Lui rideva sotto i baffi, certamente non aveva voluto umiliarmi ma insegnarmi qualcosa: anche in pubblicità la forma è importante, e la lingua deve essere perfetta, soprattutto se il prodotto è un giornale. Cose che capitano ad avere come cliente uno che scrive di mestiere.

Il mio battesimo del fuoco non ebbe conseguenze spiacevoli. Anzi curai io pochi mesi dopo il lancio di un altro supplemento de Il Manifesto: Arancia Blu, mensile ambientalista. E per la Guida del Gambero Rosso scrissi diverse recensioni di ristoranti. Ma questo mio primo cliente, così esigente, mi aveva insegnato qualcosa. E ora, pubblicità.



Quale sarà il tuo verso?

Qualche mese fa, Apple lanciava il suo iPad Air con una bella campagna TV. Le immagini mostravano diverse (e spettacolari) situazioni di prodotto in uso, ma quello che colpiva – per una volta – era il concetto, preso in prestito dal film “L’attimo fuggente” che a sua volta lo aveva preso in prestito dal poeta americano Walt Whitman: “…che la vita esiste, e l’identità, che il potente spettacolo continua, e che tu puoi contribuire con un verso.” Quale sarà il tuo verso?

IMHO (In My Humble Opinion) la campagna non è pazzamente creativa, alla fin dei conti è un raffinato slice of life di prodotto in uso; ma contiene un insight potente, e permette qualche considerazione interessante. L’insight è di quelli che ti fanno fermare a pensare, fosse pure per un attimo (e scusate se è poco): ognuno di noi può contribuire al grande spettacolo della vita con un verso, e il prodotto è uno splendido strumento con cui scriverlo. Sia fatto di parole, di immagini, di suono, di pensiero. Un’apologia dell’uomo, prima ancora che di un prodotto o di un marchio.

La considerazione è: ma se questo pensiero l’ha scritto qualcun altro, dove sta la creatività? Il fatto è che la creatività non sta tanto nel partorire nuovi pensieri, quanto nel collegare in modo inaspettato pensieri già esistenti. In questo caso, nel mettere in relazione una bella poesia (e un bel film) con un prodotto. E usare la prima per definire l’identità di quest’ultimo, e addirittura del brand.

Il gioco delle citazioni complica la ricostruzione dei credit. A chi vanno? A Whitman, che ha scritto questa potente poesia nel 1892? Allo sceneggiatore Tom Shulman, che l’ha citata nel 1989 ne “L’attimo fuggente”, portando a casa anche un Oscar? Al copywriter che ha messo insieme tutto? E quale copy? Già, perché la citazione da “L’attimo fuggente” era stata presentata a Steve Jobs già nel 1997 da Rob Siltanen della TBWA Chiat/Day (qui la sua testimonianza). Jobs amava quel film, e Robin Williams era suo amico. Doveva essere un semplice spunto creativo, una fonte di ispirazione su cui Siltanen avrebbe dovuto scrivere il testo dello spot “To the crazy ones” (qui in un test con la voce di Steve Jobs), come parte della celebrata campagna “Think different”. Il testo fu un parto sofferto: a Jobs inizialmente non piacque, e arrivò a ventilare l’idea di chiamare direttamente lo sceneggiatore del film. Evidentemente l’agenzia non l’ha mai dimenticato, e anni dopo ha deciso di usare direttamente la citazione originale, ottenendo anche il risultato di avere (nella versione originale) la voce di Robin Williams, che normalmente non fa pubblicità.

Da notare che la tagline “What will your verse be?” esiste nel film, ma non nella poesia. Con i nuovi spot on air in questi giorni, la chiosa che Robin Williams rivolge ai suoi studenti diventa esempio, testimonianza e call to action, riaffermando il posizionamento del prodotto e attribuendogli una vocazione altissima e purissima: farsi strumento di espressione creativa, e quindi di senso per la razza umana. Mica pizza e fichi. Dando vita per giunta a una campagna potenzialmente campagnabile all’infinito.

La morale, come sempre, c’è e in questo caso è doppia. 1) la creatività è connessione (connecting the dots); 2) un insight forte è un patrimonio dal valore inestimabile, e può vivere molto a lungo. E ora, pubblicità.



L’ideologia del controllo.

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Cito qui un passaggio dedicato a una delle più perniciose malattie delle imprese (italiane e non solo), che sta producendo effetti nefasti anche sulla loro comunicazione. Mi sembra interessante notare che non viene dal solito creativo frustrato, ma da un riconosciuto guru del management:  Gary Hamel è un’autorità indiscussa del management, “il re della strategia nel business” secondo The Economist (Hamel, Gary. “25 strategie per tempi difficili – Ciò che va fatto oggi per vincere domani.” Rizzoli Etas, 2012. iBooks).

Per quale motivo le nostre organizzazioni sembrano meno adattabili, meno innovative, meno vivaci e meno generose delle persone che vi lavorano? Che cosa le rende disumane? Ecco la risposta: un’ideologia del management che fa del controllo un idolo da adorare. Quali che siano le affermazioni retoriche che sostengono il contrario, il controllo è la principale preoccupazione della maggior parte dei manager e dei sistemi manageriali. Anche se la conformità (ai budget, agli obiettivi di performance, alle politiche operative e alle norme lavorative) crea valore economico, i suoi risultati sono inferiori a quelli del passato. Ciò che oggi crea valore è il prodotto geniale e del tutto inatteso, la campagna mediatica brillantemente originale e la customer experience completamente nuova. La faccenda è che, in un regime in cui il controllo regna sovrano, tutto ciò che è “unico” viene prodotto con grande fatica. La scelta è netta: possiamo rassegnarci al fatto che le nostre organizzazioni non saranno mai maggiormente adattabili, innovative o ispiratrici di quanto lo siano adesso, oppure possiamo cercare un’alternativa alla dottrina del controllo. Non sono sufficienti migliori procedure aziendali e migliori modelli di business: ciò di cui abbiamo bisogno sono princìpi più saldi. Ecco perché adesso l’ideologia ha più importanza di quanta ne abbia mai avuta in precedenza.