Allungo la mano verso lo scaffale davanti a me nel supermercato. Ecco le mie patatine fritte, le Rustiche San Carlo. Ma vedo sul pack la firma di Cracco, e la mia mano si ferma a mezz’aria. Non ci voleva. Questa storia di Cracco con le patatine proprio non mi va giù. La mano devia, si impossessa di un sacchetto di una private label. Chi ha detto che la pubblicità non funziona?
Non sono contrario per principio all’uso dei testimonial (ho già espresso qui la mia opinione), ma penso sia il caso di andare coi piedi di piombo. In questo caso l’accoppiata mi sembra davvero tirata per i capelli, come se Bob Dylan volesse vendermi un disco dei Take That. Le patatine fritte sono un peccato veniale, ma mi aspetterei che Cracco le mangiasse con discrezione, senza rivendicarle come ingrediente per “osare in cucina”. Non perché siano cattive, ma perché rappresentano la quintessenza dell’industrializzazione del cibo, in teoria il contrario esatto di quanto va sbrodolando da anni su libri, articoli e programmi in TV. Insomma, non mi convice: la patatina non riesce proprio a cracchizzarsi, è piuttosto Cracco che si patatinizza, e peggio per lui.
Il tentativo di riposizionare l’umile compagna dei nostri aperitivi come rivoluzionario ingrediente di haute cuisine potrebbe essere interessante. Ma dovrebbe essere un’operazione a lungo termine, da spingere con intelligente lentezza, accostandola ai luoghi e alle occasioni giuste. Non basta che me lo dica San Carlo Cracco come fosse il verbo, così non la compro. Testimonial per testimonial preferisco Rocco Siffredi, perché ci trovo almeno un pizzico di ironia – che invece Cracco non conosce. E ora, pubblicità.