Digitale, mon amour.

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Mi rendo conto di avere opinioni molto contro tendenza. Ma l’improvviso amore di tante aziende per la comunicazione non convenzionale è sempre ricambiato dal mercato? Le nuove case history, quelle che vincono a Cannes, non puntano sui mezzi classici, che sembrano in via di abbandono (ultimi dati: -24% per quotidiani e periodici, -15% per TV nel periodo gennaio-luglio 2013 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente). Sono piuttosto operazioni interattive, virali o pseudovirali, largamente appoggiate sui social network.

Due dubbi. Il primo, quantitativo. In un recente articolo, Advertising Age cita dati Nielsen per notare che i video in Rete totalizzano solo il 2,3% del totale del consumo audiovisivo (almeno negli USA), e si chiede se gli investitori non stiano mettendo sul digitale troppi soldi, e troppo in fretta. In altre parole, i numeri dicono che la vecchia TV è tutt’altro che morta, e non lo sarà ancora per un bel po’ di tempo.

Certo, le 72 milioni di views vantate da Intel e Toshiba per l’operazione The Beauty Inside fanno impressione. Ma ne fanno meno se si pensa che sono i numeri di una grande campagna internazionale, e che un inserzionista del Super Bowl raggiunge 110 milioni di telespettatori, tutti in una sola serata. Online c’è l’engagement, l’interattività, d’accordo. Ma quanti di quei viewer sono davvero interattivi? Poco più di un terzo, dicono gli autori. Ma chi pensa che quelli online siano contatti gratuiti, se lo levi dalla mente: perché un virale raggiunga quei numeri, c’è bisogno di corposi investimenti in seeding. Come dicono gli americani, che di soldi se ne intendono, there is no such thing as a free lunch.

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Il secondo dubbio è qualitativo. C’è davvero una idea memorabile? Restando all’esempio fatto, un’operazione così ambiziosa e articolata, che si svolge nell’arco di 2-3 mesi, riesce a comunicarmi un insight potente? Il concetto che la vera bellezza sia dentro – con ovvio riferimento al processore – mi sembra debolino, e un po’ scontato. Ma se uno strumento di ADV classico è obbligato alla fulminea sintesi dell’impatto, un’operazione così dilatata e interattiva si perde inevitabilmente un po’ per strada. Siamo sicuri che il risultato finale mi convinca che il bello di un computer è il processore? Questo mi spinge davvero a desiderare il prodotto? E soprattutto, sedimenterà nel tempo come identità di marca?

La risposta, diceva Corrado Guzzanti, è dentro di te. Ed è sbajata. Resta il fatto che, come notava giustamente Francesco Taddeucci in un post nel suo blog, quelle che generano uno strumento ADV tradizionale e un’operazione interattiva online sono creatività differenti. Più orientata alla sintesi e all’impatto la prima, più analitica e strutturalista la seconda. Che convivano, è difficile. E ora, pubblicità.

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