Ho un piccolo ristorante. Non è una trattoria di quartiere, e non è un fast food. Diciamo che ci piace fare le cose bene, al di là delle stelle della critica. Ingredienti freschi, niente di precotto, tutta cucina espressa. Il conto è onestissimo, considerato il tempo e la passione che mettiamo nelle nostre ricette. Credo nella buona cucina, ma credo anche che non si debba fare troppa fatica per capirla e apprezzarla. In cucina con me, giovani di talento talvolta qualche vecchio amico.
Restiamo nella metafora, mi piace immaginare un’agenzia di comunicazione come un posto dove si mangia bene. A servire la nostra creatività ai tavoli, due bravissime maître (non uso il femminile, perché sarebbe inelegante). Sanno capire i gusti del cliente, consigliarlo, presentare bene i nostri piatti (già, perché fuor di metafora io credo che un bravo account non debba mai essere un cameriere ma un maître). Io esco spesso dalla cucina, col grembiule sporco, a salutare i miei clienti e ad assicurarmi che la cena sia piaciuta.
Succede raramente, ma qualche volta succede. Arrivano in cucina affrante, già sapendo di darmi un dolore: “Il cliente vorrebbe del ketchup da mettere sul risotto.” “Come del ketchup? Non c’entra niente.” Vanno, tornano. “Il cliente è arrabbiato. Dice che paga lui, e vuole il ketchup. Se non glielo porti, va al Mac Donald’s qui di fronte.” Sì, ma il mio orgoglio di cuoco? La nostra dignità di ristorante? Va a finire che stranamente non lo trovo, il ketchup. E che magari portiamo al cliente un altro piatto: magari dal gusto più deciso, ma nostro. Che fatica. E ora, pubblicità.