Adesso che le passioni e le delusioni cominciano a sedimentare. Adesso che i manifesti cominciano a essere grattati via in blocchi di colla. Adesso che è chiaro che mai come in queste elezioni la comunicazione tradizionale è stata irrilevante. Soltanto adesso, forse, è arrivato il momento di parlare di comunicazione elettorale.
Due settimane fa, ho fatto parte della “giuria professionale” del Galà della Politica, iniziativa di monitoraggio e valutazione della comunicazione politica svolta dal Dipartimento Filosofia Comunicazione e Spettacolo dell’ Università degli Studi di Roma Tre insieme all’Archivio degli Spot Politici. L’iniziativa è di per sé meritoria, e da qualche anno costituisce un archivio interessante della comunicazione politica italiana. Ma è davvero difficile che le categorie del premio (campagna istituzionale, campagna tematica, inno, slogan, spot) possano adattarsi a una comunicazione frammentata, trasversale e multicanale come quella che si è vista.
Per cominciare, la classica “campagna elettorale” basata sui tradizionali manifesti e spot TV è risultata quasi irrilevante. Alcuni hanno scelto di non farla affatto (come Berlusconi), puntando tutto sull’ospitalità più o meno compiacente da parte delle reti televisive del leader di turno. Quasi tutti hanno messo un piede nel digitale e nei social media (pagine Facebook e Twitter a gogò), alcuni con la naturalezza di chi lo fa da anni, altri con la rigidità di chi si affida (ma non si fida) a un consulente. I messaggi e i video autoprodotti hanno affollato la rete, sfidando ogni strategia e ogni controllo centralizzato, e generando in qualche caso contraddizioni e precipitose marce indietro. Il confronto fra idee e programmi (che tradizionalmente si combatteva anche a colpi di manifesti) è diventato in sostanza un referendum fra i leader politici, combattuto soprattutto nei salotti televisivi.
Chi ha fatto una scelta diametralmente opposta è stato Grillo, che ha sistematicamente disertato le televisioni per affidarsi a piazze telematiche e reali. Come ha osservato Umberto Eco su Repubblica questa mattina (linkerei volentieri l’intervista, se non fosse un contenuto riservato agli abbonati), Grillo ha avuto successo perché non è mai apparso in TV. Sospetto che non ci sia andato perché un giornalista gli avrebbe impedito di fare il tribuno, costringendolo forse a rispondere a qualche domanda, ma questo è un parere personale. Di fronte all’affermazione di Eco, Berlusconi inorridirebbe. Eppure, da un certo punto di vista, ha “vinto” anche lui, compiendo una rimonta impossibile. Chi ha avuto ragione quindi, Grillo o Berlusconi? Tutti e due. La risposta sta nei loro rispettivi elettorati, profondamente diversi da un punto di vista demografico, culturale e della fruizione dei media.
Parlare quindi di “miglior campagna elettorale” appare dunque totalmente fuori luogo, e fuori tempo. Personalmente, non mi è dispiaciuta quella di SEL, che è comunque riuscita a trasmettere un’idea di freschezza, di ottimismo e di realismo (belli gli scatti non posati). Mi è piaciuto anche uno spot del PD “Il bacio”, uno dei pochissimi che propone una narrazione, una piccola storia ben costruita fondata sull’incertezza e sulla speranza. Dal punto di vista strettamente copy, ho apprezzato la Italia giusta di Bersani (là dove evidentemente quel “giusta” ha il doppio significato di “equa” e di “adatta”), e anche la Italia che sale di Monti, che richiamava la salita in politica del suo leader per suggerire un’Italia che sale nella performance, nelle classifiche e nella considerazione internazionale.
Valutazioni, queste, squisitamente professionali ed evidentemente lontane anni luce dal modo in cui poi sono andate le cose. Quanto avranno influito, quindi, queste parole nella scelta degli elettori? Temo pochissimo, se non a livello inconsapevole. E poi la copy, si sa, non la legge nessuno.
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