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La comunicazione ai tempi degli hacker.

I manifesti ci sono, anzi sono tornati i rassicuranti 6×3 da cui campeggiano faccioni photoshoppati e generici slogan. In alcuni casi (Giorgia Meloni) la post produzione ha fatto miracoli anti-age, in altri (Silvio Berlusconi) si è risparmiato tempo e denaro andando a prendere direttamente le foto di trent’anni fa.

Facciamo una veloce carrellata: tutti i messaggi sono fortemente personalizzati, incentrati sui rispettivi leader. Forza Italia con messaggi vagamente minacciosi (“Apri gli occhi”, “Vota chi vale”) che potrebbero in realtà essere buoni per chiunque. Fratelli d’Italia intercetta gli scettici e vorrebbe andare “in Europa per cambiare tutto”.

I PD correttamente si smarca anche nello stile, con fotografie del nuovo segretario fra la gente, l’unico a non guardare in macchina verso l’elettore. I messaggi sono buonisti e sfumati: “Costruiamo speranze, non muri”, “Creiamo lavoro, non odio” ma giocano sempre in difesa, e il buonismo non vende di questi tempi. La strategia è corretta, ma debole.

La Lega punta sul consueto “Prima l’Italia”, accompagnato dal rassicurante “Il buonsenso in Europa”. Politicamente non significa nulla, ma è furbamente inattaccabile. È rozzo, ma funziona.

Questo per quanto riguarda la comunicazione tradizionale. Ma mai come quest’anno si ha la sensazione che la vera campagna elettorale sia altrove. E che questo altrove non siano più gli ormai classici new media e il digitale, ma sia un campo di battaglia su cui si scontrano insinuazioni, fake news, meme, selfie, allarmi virali quasi mai firmati da partiti o candidati, ma subdolamente nascosti dietro siti fasulli, influencer e profili farlocchi. Dietro a queste regie, nella migliore delle ipotesi, ci sono professionisti e macchine complesse. Nella peggiore, misteriose società di consulenza internazionali e falangi di hacker venuti dal freddo.

In questo scenario, chi ha studiato comunicazione alle università delle “classiche” grandi agenzie si trova spiazzato, nell’analisi e nella proposta. Nuovi attori si materializzano sul mercato, società senza storia in cui abbondano gli informatici ma scarseggiano i copywriter, che puntano sulla velocità ma ignorano la profondità. Può funzionare nel breve, ma non costruire sulla distanza. E ora, pubblicità.



La politica, senza la politica (II).

RENZI, MI CANDIDO A GUIDARE L'ITALIA DELUSI PDL VOTINO ME

Lo storico marchio PD, amato e odiato, fa parte della storia degli italiani come la Fiat e la Ferrero. Dopo una serie di riposizionamenti, renaming e rebranding ha oggi un nuovo amministratore delegato, che agli azionisti ha promesso finalmente dei dividendi. Il prodotto su cui punta Matteo Renzi è il cambiamento: le ricerche di mercato ne rilevano la forte domanda, e una colossale campagna di lancio l’ha ulteriormente rafforzata. La gente fa la fila, e bivacca sui marciapiedi come per il Day One dell’iPad. Sulla carta, sembrerebbe un successo annunciato, di dimensioni epocali. Peccato che il prodotto non sia ancora a punto. Sugli scaffali non c’è ancora, e i commessi non sanno più cosa dire ai clienti (“dovrebbe arrivare la prossima settimana”). Non solo: l’amministratore delegato sta trovando delle resistenze all’interno del CdA. È chiaro che il fattore chiave per Matteo Renzi è il tempo: deve vincere le resistenze del CdA, mettere a punto il prodotto e distribuirlo subito sui punti vendita. Il momento è adesso, la gente non resterà in fila fuori dai negozi ancora per troppo tempo. E gli azionisti vogliono risultati. Per questo la campagna di lancio continua, deve continuare, tutti i giorni su tutti i mezzi, con un investimento mediatico da far impallidire L’Oréal. Ma quanto può durare una campagna di lancio?



C’era una volta la campagna elettorale.

Adesso che le passioni e le delusioni cominciano a sedimentare. Adesso che i manifesti cominciano a essere grattati via in blocchi di colla. Adesso che è chiaro che mai come in queste elezioni la comunicazione tradizionale è stata irrilevante. Soltanto adesso, forse, è arrivato il momento di parlare di comunicazione elettorale.

La campagna di affissioni di SEL

Due settimane fa, ho fatto parte della “giuria professionale” del Galà della Politica, iniziativa di monitoraggio e valutazione della comunicazione politica svolta dal Dipartimento Filosofia Comunicazione e Spettacolo dell’ Università degli Studi di Roma Tre insieme all’Archivio degli Spot Politici. L’iniziativa è di per sé meritoria, e da qualche anno costituisce un archivio interessante della comunicazione politica italiana. Ma è davvero difficile che le categorie del premio (campagna istituzionale, campagna tematica, inno, slogan, spot) possano adattarsi a una comunicazione frammentata, trasversale e multicanale come quella che si è vista.

Per cominciare, la classica “campagna elettorale” basata sui tradizionali manifesti e spot TV è risultata quasi irrilevante. Alcuni hanno scelto di non farla affatto (come Berlusconi), puntando tutto sull’ospitalità più o meno compiacente da parte delle reti televisive del leader di turno. Quasi tutti hanno messo un piede nel digitale e nei social media (pagine Facebook e Twitter a gogò), alcuni con la naturalezza di chi lo fa da anni, altri con la rigidità di chi si affida (ma non si fida) a un consulente. I messaggi e i video autoprodotti hanno affollato la rete, sfidando ogni strategia e ogni controllo centralizzato, e generando in qualche caso contraddizioni e precipitose marce indietro. Il confronto fra idee e programmi (che tradizionalmente si combatteva anche a colpi di manifesti) è diventato in sostanza un referendum fra i leader politici, combattuto soprattutto nei salotti televisivi.

Chi ha fatto una scelta diametralmente opposta è stato Grillo, che ha sistematicamente disertato le televisioni per affidarsi a piazze telematiche e reali. Come ha osservato Umberto Eco su Repubblica questa mattina (linkerei volentieri l’intervista, se non fosse un contenuto riservato agli abbonati), Grillo ha avuto successo perché non è mai apparso in TV. Sospetto che non ci sia andato perché un giornalista gli avrebbe impedito di fare il tribuno, costringendolo forse a rispondere a qualche domanda, ma questo è un parere personale. Di fronte all’affermazione di Eco, Berlusconi inorridirebbe. Eppure, da un certo punto di vista, ha “vinto” anche lui, compiendo una rimonta impossibile. Chi ha avuto ragione quindi, Grillo o Berlusconi? Tutti e due. La risposta sta nei loro rispettivi elettorati, profondamente diversi da un punto di vista demografico, culturale e della fruizione dei media.

Una affissione del PD

Parlare quindi di “miglior campagna elettorale” appare dunque totalmente fuori luogo, e fuori tempo. Personalmente, non mi è dispiaciuta quella di SEL, che è comunque riuscita a trasmettere un’idea di freschezza, di ottimismo e di realismo (belli gli scatti non posati). Mi è piaciuto anche uno spot del PD “Il bacio”, uno dei pochissimi che propone una narrazione, una piccola storia ben costruita fondata sull’incertezza e sulla speranza. Dal punto di vista strettamente copy, ho apprezzato la Italia giusta di Bersani (là dove evidentemente quel “giusta” ha il doppio significato di “equa” e di “adatta”), e anche la Italia che sale di Monti, che richiamava la salita in politica del suo leader per suggerire un’Italia che sale nella performance, nelle classifiche e nella considerazione internazionale.

Lo slogan di Monti

Valutazioni, queste, squisitamente professionali ed evidentemente lontane anni luce dal modo in cui poi sono andate le cose. Quanto avranno influito, quindi, queste parole nella scelta degli elettori? Temo pochissimo, se non a livello inconsapevole. E poi la copy, si sa, non la legge nessuno.

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