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Chi ha detto che la pubblicità non funziona?

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Allungo la mano verso lo scaffale davanti a me nel supermercato. Ecco le mie patatine fritte, le Rustiche San Carlo. Ma vedo sul pack la firma di Cracco, e la mia mano si ferma a mezz’aria. Non ci voleva. Questa storia di Cracco con le patatine proprio non mi va giù. La mano devia, si impossessa di un sacchetto di una private label. Chi ha detto che la pubblicità non funziona?

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Non sono contrario per principio all’uso dei testimonial (ho già espresso qui la mia opinione), ma penso sia il caso di andare coi piedi di piombo. In questo caso l’accoppiata mi sembra davvero tirata per i capelli, come se Bob Dylan volesse vendermi un disco dei Take That. Le patatine fritte sono un peccato veniale, ma mi aspetterei che Cracco le mangiasse con discrezione, senza rivendicarle come ingrediente per “osare in cucina”. Non perché siano cattive, ma perché rappresentano la quintessenza dell’industrializzazione del cibo, in teoria il contrario esatto di quanto va sbrodolando da anni su libri, articoli e programmi in TV. Insomma, non mi convice: la patatina non riesce proprio a cracchizzarsi, è piuttosto Cracco che si patatinizza, e peggio per lui.

Il tentativo di riposizionare l’umile compagna dei nostri aperitivi come rivoluzionario ingrediente di haute cuisine potrebbe essere interessante. Ma dovrebbe essere un’operazione a lungo termine, da spingere con intelligente lentezza, accostandola ai luoghi e alle occasioni giuste. Non basta che me lo dica San Carlo Cracco come fosse il verbo, così non la compro. Testimonial per testimonial preferisco Rocco Siffredi, perché ci trovo almeno un pizzico di ironia – che invece Cracco non conosce. E ora, pubblicità.

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Quale sarà il tuo verso?

Qualche mese fa, Apple lanciava il suo iPad Air con una bella campagna TV. Le immagini mostravano diverse (e spettacolari) situazioni di prodotto in uso, ma quello che colpiva – per una volta – era il concetto, preso in prestito dal film “L’attimo fuggente” che a sua volta lo aveva preso in prestito dal poeta americano Walt Whitman: “…che la vita esiste, e l’identità, che il potente spettacolo continua, e che tu puoi contribuire con un verso.” Quale sarà il tuo verso?

IMHO (In My Humble Opinion) la campagna non è pazzamente creativa, alla fin dei conti è un raffinato slice of life di prodotto in uso; ma contiene un insight potente, e permette qualche considerazione interessante. L’insight è di quelli che ti fanno fermare a pensare, fosse pure per un attimo (e scusate se è poco): ognuno di noi può contribuire al grande spettacolo della vita con un verso, e il prodotto è uno splendido strumento con cui scriverlo. Sia fatto di parole, di immagini, di suono, di pensiero. Un’apologia dell’uomo, prima ancora che di un prodotto o di un marchio.

La considerazione è: ma se questo pensiero l’ha scritto qualcun altro, dove sta la creatività? Il fatto è che la creatività non sta tanto nel partorire nuovi pensieri, quanto nel collegare in modo inaspettato pensieri già esistenti. In questo caso, nel mettere in relazione una bella poesia (e un bel film) con un prodotto. E usare la prima per definire l’identità di quest’ultimo, e addirittura del brand.

Il gioco delle citazioni complica la ricostruzione dei credit. A chi vanno? A Whitman, che ha scritto questa potente poesia nel 1892? Allo sceneggiatore Tom Shulman, che l’ha citata nel 1989 ne “L’attimo fuggente”, portando a casa anche un Oscar? Al copywriter che ha messo insieme tutto? E quale copy? Già, perché la citazione da “L’attimo fuggente” era stata presentata a Steve Jobs già nel 1997 da Rob Siltanen della TBWA Chiat/Day (qui la sua testimonianza). Jobs amava quel film, e Robin Williams era suo amico. Doveva essere un semplice spunto creativo, una fonte di ispirazione su cui Siltanen avrebbe dovuto scrivere il testo dello spot “To the crazy ones” (qui in un test con la voce di Steve Jobs), come parte della celebrata campagna “Think different”. Il testo fu un parto sofferto: a Jobs inizialmente non piacque, e arrivò a ventilare l’idea di chiamare direttamente lo sceneggiatore del film. Evidentemente l’agenzia non l’ha mai dimenticato, e anni dopo ha deciso di usare direttamente la citazione originale, ottenendo anche il risultato di avere (nella versione originale) la voce di Robin Williams, che normalmente non fa pubblicità.

Da notare che la tagline “What will your verse be?” esiste nel film, ma non nella poesia. Con i nuovi spot on air in questi giorni, la chiosa che Robin Williams rivolge ai suoi studenti diventa esempio, testimonianza e call to action, riaffermando il posizionamento del prodotto e attribuendogli una vocazione altissima e purissima: farsi strumento di espressione creativa, e quindi di senso per la razza umana. Mica pizza e fichi. Dando vita per giunta a una campagna potenzialmente campagnabile all’infinito.

La morale, come sempre, c’è e in questo caso è doppia. 1) la creatività è connessione (connecting the dots); 2) un insight forte è un patrimonio dal valore inestimabile, e può vivere molto a lungo. E ora, pubblicità.



Il fascino spericolato del testimonial.

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L’uso dei testimonial ha sempre esercitato un grande fascino sulle aziende. Pagando un prezzo più o meno modico, un marchio ha la convinzione di comprare una storia e una fama già acquisiti, risparmiando tempo e fatica. Ma il gioco non è così facile, e ha le sue controindicazioni. Per esempio, il mio testimonial potrebbe farsi beccare in macchina con una minorenne, o anche solo esprimere opinioni avventate su un tema controverso. E in quel caso non soltanto avrei sprecato del denaro, ma avrei arrecato al marchio un danno incalcolabile: la fama amplifica il bene e il male.

I creativi non amano troppo i testimonial, spesso usati al posto di una buona idea (che costa di meno, e funziona altrettanto bene). Talvolta si usano usare testimonial a loro insaputa, come ha fatto Apple con Einstein o Telecom con Gandhi. Il banale assunto “se lo usa lui che è famoso, vuol dire che il prodotto è davvero buono” non funziona più dal Pleistocene. Oggi il target è molto più smaliziato, e nessuno pensa che davvero Antonio Banderas mangi a casa sua i biscotti del Mulino Bianco. Anzi, sono in molti a sospettare che lui ne parli bene solo perché lautamente pagato.

Nella mia vita professionale ne ho usati talvolta, senza traumi. Arnoldo Foà in foto e in voce, per un’opera editoriale dedicata al teatro. Renato Pozzetto per il panettone Motta. L’allenatore Carlo Mazzone per una linea di videogiochi chiamata “Il mio coach”. Un’infinità di personaggi televisivi di successo, per telepromozioni di ogni tipo. L’importante – ho sempre pensato – è che il testimonial interpreti sé stesso, e che sia coerente con il prodotto. Ma vediamo alcuni possibili aspetti critici.

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La scelta. Il primo dei problemi: è famoso abbastanza? È troppo connotato? Trasmette valori coerenti con la marca e con il prodotto? È in ascesa o in discesa? Curiosamente, testimonial stranieri possono essere abbastanza a buon mercato, a patto che la campagna sia solo locale e non sia mai vista in patria, dove la loro immagine può restare immacolata.

La riconoscibilità. Assolutamente da evitare le situazioni in cui il testimonial è costretto a dire “Sono Tizio Caio”. Possibilmente da evitare scritte in sovrimpressione che lo identificano. Tradiscono la paura che non sia riconosciuto, e per un testimonial è un controsenso. A meno che il nostro testimonial non sia tale per il suo ruolo o la sua professione, e non perché famoso.

Proiezione o desiderio? Vecchio dilemma: il testimonial deve incarnare il desiderio del target (come si suppone faccia Banderas nei confronti delle mamme italiane) oppure la proiezione di come vorrebbe vedersi (vedi le supermodel arruolate dalle industrie dei cosmetici)? Il meccanismo della proiezione può essere scivoloso, come nel caso del claim di L’Oréal “Perché io valgo”, che detto da Claudia Schiffer sembrava irridere la povera casalinga di Voghera. A peggiorare le cose fu poi aggiunto “E anche voi”, con l’effetto di una pezza a colori.

L’uscita di scena. Il momento più delicato: il vecchio testimonial è diventato troppo ingombrante, o ha alzato troppo le sue pretese; o comunque per qualche motivo il marchio ha deciso di liberarsene. Per non sparire ex abrupto, il vecchio passa il testimone al nuovo (o a un nuovo personaggio anonimo), accomiatandosi dal target con pretesto narrativo. Memorabile fu il tentato sgancio di Vodafone da Megan Gale, semisconosciuta modella australiana diventata troppo famosa, o troppo bella, o troppo esosa, chissà. Fu inventata una complicata storia in cui lei si trasformava in un’anonima bionda, ma il trapasso fu sofferto e lasciò orfani molto italiani. In questi giorni vediamo Mika affiancare Raul Bova in un armonioso ménage a Tre, ma scommetterei che prenderà presto il posto di Raul al fianco di Teresa Mannino (e rischiando di creare un po’ di confusione con Sky/Fastweb, come nota Wired).

mika bova mannino

L’argomento è complesso, e non può essere esaurito in poche righe. Ma una cosa si può ricordare: un’idea può fare a meno di un testimonial, ma un testimonial non può fare a meno di un’idea. E ora, pubblicità.



Le banche, le olive e la difficilissima arte della metafora.

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Devo dirlo, la campagna attualmente on air per la Banca Popolare di Milano non mi convince. Sconta secondo me un difetto di fondo: è costituita da innesti creativi di metafore su metafore, simboli su simboli, e alla fine sfugge qualcosa.

Il meccanismo dell’innesto è un meccanismo collaudato della creatività: si inserisce un elemento estraneo all’interno di una immagine consolidata, e questo provoca sorpresa e straniamento. Ad esempio, se metto uno dei re magi a cavallo di una Harley, introduco un elemento alieno all’interno di un set riconosciuto, e questo è un atto creativo. Ma se faccio la stessa cosa con una foto di amici, il mio riferimento non è più universale e il gioco perde di senso, se non per quei pochi amici che magari sanno che l’amico Tizio non metterebbe mai piede su una moto.

casco borsetta

Nel caso di BPM, la campagna gioca con una serie di oggetti-simbolo (un casco, una borsetta, un mappamondo) fatti di olive verdi. Olive? Perché olive? Ho letto post sgomenti di colleghi creativi, che chiedevano aiuto nel decrittare la simbologia. Facendo un attento percorso a ritroso, si arriva alla conclusione che l’oliva viene dalla forma ovale del marchio, e rappresenta la banca stessa.

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Questo primo passaggio BPM = oliva, già appare critico: 1) con un frutto nato per essere spremuto, e parlando di banche, la metafora è quantomeno ardita; 2) la metafora non è universalmente condivisa: è stato comunicata poco, non ha sedimentato, non ha avuto il tempo di diventare un set riconoscibile. Se il mio cliente fosse stato Apple e avessi usato delle mele (in realtà non l’avrei fatto, perché non è nel loro stile), avrei comunque usato una metafora che è già il marchio, sia nel nome che nel visual. Ma usare un’equazione nuova, una metafora già azzardata per innestarvi sopra un altro simbolo, non funziona. Il percorso semantico BMP = oliva = casco = sicurezza è tortuoso, e di tutti questo è già il più lineare. Già, perché cambiando soggetto cosa simbolizza la borsetta? Non il risparmio. Forse lo shopping? O l’eleganza, o la femminilità?

olive mappamondo

Quando poi arriviamo al mappacuore, il simbolo finale raddoppia e le cose si intricano ulteriormente: l’oliva, simbolo non-universale della nostra banca, si innesta su un mappamondo a forma di cuore. Un simbolo dentro un secondo simbolo, a sua volta dentro un terzo simbolo. L’amore universale? La globalizzazione? La geografia degli affetti? E infine, cosa c’entra questo simbolismo a stadi con il bel payoff “Il futuro è di chi fa”? Il gioco della metafora è intrigante, ma a esagerare si rischia l’effetto Bersani. E ora, pubblicità.



Chi ha lasciato lo sportello aperto?

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Lo so, sembra che mi diverta a prendere in giro l’assoluta mancanza di senso della pubblicità moda. E invece sono avvilito: perché con i cospicui budget che hanno a disposizione, si potrebbero costruire intere cattedrali di brand. E invece, niente. Qualche giorno fa su Repubblica, su un quarto di pagina in primissimo sfoglio (pagina 3), mi imbatto in questo bel ragazzotto, firmato Valentino. Ha appena sbattuto la testa sullo sportello del pensile della cucina? Ha un furioso mal di testa? E perché ha le unghie sporche? E soprattutto – domanda delle domande – perché mai questo dolore in area occipitale dovrebbe contribuire all’identità di marca della maison Valentino?

Sull’allergia dei marchi moda al pensiero strategico mi sono già espresso in questo post. In questo caso però sembra che un’agenzia ci sia, la REM di Riccardo Ruini (un bravo art director consacrato alla causa della moda) e Olivia Mariotti (storica PR del mondo fashion). Il che rende il mio articolo più difficile da scrivere, perché non amo commentare il lavoro dei colleghi.

Nel loro caso, un lavoro sempre molto professionale, per carità. Solo moda e dintorni, ma sempre grandi marchi, grandi produzioni, grandi nomi (nel caso di Valentino, il fotografo newyorchese Terry Richardson), grandi budget, grandi execution. A questo punto, manca solo una grande idea. E ora, pubblicità.



Energie a confronto.

È di questi giorni il duello sui media fra Enel ed ENI. Due pesi massimi dell’energia, purtroppo – o per fortuna – entrambi di proprietà pubblica. Entrambe le campagne sono istituzionali, vale a dire non tese a vendere un prodotto (un’offerta, un nuovo contratto) ma l’istituzione stessa. Colpisce la quasi simultaneità (Enel è on air da un mese, ENI da pochi giorni), che induce a qualche riflessione, e a un inevitabile confronto.

Le due campagne sono ovviamente lavori di grande professionalità, ed entrambe molto ben scritte – notazione da vecchio (?) copy. ENI più classica e focalizzata sulla ricerca come mission aziendale, con il claim Rethink energy. Agenzia TBWA\Italia, art director Chiara Giannuzzi e Michele Marconi, copywriter Raffaella Iollo e Arnaldo Funaro, direttore creativo Fabrizio Caperna.

Enel più socialmente impegnata, con il suo appello ai guerrieri della vita quotidiana, e alle loro storie. Agenzia Saatchi & Saatchi, art director Manuel Musilli, copywriter Antonio Di Battista, direttore creativo Agostino Toscana.

Enel decide di mettere un piede nei social media con l’hashtag #guerrieri, e lo mette invece su una buccia di banana. Perché se la gente è smaliziata i social networker lo sono ancora di più, e la campagna è diventata quello che in rete definiscono epic fail, sollevando polemiche di ogni genere. Non solo da parte degli spettatori, che hanno il sospetto dietro all’omaggio ci sia un pizzico di sfruttamento commerciale, e di indelicatezza visto il dramma economico che stanno vivendo tutti i #guerrieri. Ma anche dai fornitori di altri servizi, offesi perché lo spot accenna (anche) ad autobus che non arrivano mai. Morale: sono tutti arrabbiati, e non si contano in rete gli interventi polemici. L’azienda si difende con apparente sicurezza, e certo molte delle polemiche appaiono forzate. Ma resta il sospetto che vinca il principio del “bene o male, purché se ne parli”. E che forse l’operazione sarebbe stata più rotonda, se il sostegno ai #guerrieri fosse stato sostanziato con un’offerta ad hoc.

Al contrario, ENI non chiede interattività, e comunica unidirezionalmente, alla vecchia maniera, pur con un minimo supporto digitale. Io azienda parlo (con la voce di Toni Servillo), tu consumatore ascolti. Ma in questo caso l’approccio classico è premiante, anche in termini di immagine, che ne esce più forte e più alta. La conclusione è che l’interattività, come l’energia, è un bene prezioso. Usiamola con parsimonia. E ora, pubblicità.



Il misterioso caso della comunicazione moda.

La faccia rabbuiata di un uomo mi guarda dalla pagina di un quotidiano. Ha la barba mal fatta, lo sguardo torvo e un’espressione annoiata e scontenta. È vestito in modo ricercato, ma questo fatto non lo rasserena.

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Perché i modelli delle pubblicità di moda debbano sempre avere quest’aria infastidita, è un mistero. Così come è un mistero l’eccezione-moda sul pianeta della comunicazione. Nessuna parola scritta, nessun concetto illuminante, nessuna idea. Nessun tentativo di posizionare il marchio in modo univoco, se non il prodotto stesso, spesso marginale rispetto ai modelli (talvolta testimonial famosi, ma comunque imbronciati). E il brand, il verbo, che domina la pagina o lo spot.

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Evidentemente, manca qualcosa: un’idea, possibilmente congruente. Una possibile spiegazione sta nel fatto che chi fa moda è a sua volta un creativo, e non capisce perché mai dovrebbe avvalersi di un altro creativo per curare la sua comunicazione. Poi, la moda tende a costruire rapporti privilegiati con fotografi, spesso bravissimi nel loro mestiere, che sono a loro volta dei creativi, e fertili produttori di idee visive. Il brief viene così risolto fra stilista e fotografo, e si risolve con qualcosa tipo “Fotografiamo lui appoggiato al muro di una fabbrica abbandonata”. “Geniale”. Bellissimo, ma cosa vuol dire? Che senso ha? In questo scambio di idee, un creativo pubblicitario minimamente professionale farebbe la figura dell’account noioso, chiedendo timidamente “Scusate, ma cosa vogliamo comunicare?”

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Nella storia della comunicazione moda, le eccezioni sono pochissime, e infatti sono le uniche che si ricordano. La bellissima campagna per Loro Piana firmata Pirella Gottsche, con l’inarrivabile snobismo dell’uomo con la scarpa bucata. Delle belle campagne per Krizia, della stessa agenzia. Ma restano appunto eccezioni, e di vent’anni fa. Oggi, fanno eccezione solo il casual e lo sportswear, dove infatti un paziente lavoro di posizionamento e la creatività sono riusciti a creare nel tempo delle belle case history (vedi Freddy o North Sails, o il bellissimo lavoro per il lancio di Armani EA7, per non parlare dei superbrand come Diesel, Lacoste, Nike o Adidas).

Resta il fatto che quello fra moda e comunicazione creativa sia un matrimonio mai realmente consumato. Ed è un peccato, perché l’industria moda resta una delle poche eccellenze italiane – e una delle pochissime big spender – dove insieme a un prodotto eccellente potremmo esportare nel mondo anche eccellenti idee di comunicazione. E ora, pubblicità.



Marchi nella nebbia.

Parlando di coerenza e di identità di marca, stento a seguire quella di Almo Nature. Più che un posizionamento univoco, sembra inseguire delle mode, peraltro già invecchiate. Nel 2010, una incomprensibile campagna firmata da Oliviero Toscani (un mediocre fotografo che inspiegabilmente viene ancora intervistato dalla stampa pigra come “pubblicitario”). Non la commento, sarebbe come sparare sulla croce rossa. Noto soltanto il patetico gioco di parole amore/almore/almo nature, e riporto le parole del guru: “Dietro questa campagna c’è un’idea e in quanto tale non ha nome. E’ emozione, è sensazione e desiderio: è filosofia. La filosofia di un’azienda che crede nella forza delle idee e dell’interpretazione personale.” (qui la fonte della citazione). Mi viene in mente il Briatore di Maurizio Crozza e scuoto tristemente la testa.

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L’anno dopo, qualcuno si ricorda che una campagna pubblicitaria dovrebbe forse anche vendere qualcosina, e mette in mano a una donna-gatto una busta di prodotto, elevando la campagna dall’incomprensibile al grottesco. Il risultato è raggelante.

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Quest’anno, si cambia registro. L’idea è quella di affidarsi alla sand artist Ilana Yahav. Idea non orginalissima, visto che l’artista era stata già cooptata per una visibilissima campagna ENI del 2010. È uno di quei casi in cui lo stile dell’artista prevale sul messaggio e sul brand: col risultato che adesso, guardando in TV i nuovi spot Almo Nature, sembra di vedere ancora ENI. Il posizionamento, ancora nella nebbia.

Cosa c’entrerà mai la nuova campagna con l’almore toscaneggiante? Qual è il fil rouge che dovrebbe condurci per mano? L’anticonvenzionalità riciclata? Se il concetto strategico è la naturalità, stento a trovarla in quei lugubri nudi con teste di animali, che non basta la parola amore a scaldare. Né la trovo nella comunicazione attuale (se non altro più morbida nel tone of voice), infarcita com’è di dati e percentuali.

Peccato, perché Almo Nature è un prodotto di qualità, e meriterebbe una comunicazione all’altezza. Forse il suo marketing dovrebbe affidarsi meno alle mode, e più a una solida strategia di marca. E ora, pubblicità.



Think short.

Chi l’ha detto, che la creatività ha bisogno di formati lunghi? Questi celebri spot da 10 secondi – realizzati dalla J. Walter Thompson di Londra per Vodafone – sono la prova che si può essere molto creativi anche grazie ai formati brevi. Tanto creativi da vincere un argento a Cannes nel 2006. In questo caso il fattore tempo viene usato proprio per sottolineare l’offerta: una serie di velocissimi scambi di battute, fra due promessi sposi (“E’ cancellato.” “Nessun problema.”), fra figlio e madre (“Sono due gemelli. “Grazie per aver chiamato.”) e fra figlio e padre (“Papà, sono gay.” “Eccellente.”) Seguiti da uno speaker che presenta l’offerta: “Ci sono momenti che durano più di una conversazione da 3 minuti. Parla fino a 60 minuti, paga solo per 3. Con Vodafone Stop-the-clock.”

Non solo il tempo non è un limite, ma anzi la sua brevità costituisce il tempo comico ideale per lo spot. Fossero stati più lunghi, avrebbero perso questo ritmo che li rende perfetti. Il risultato? Un messaggio chiaro sull’offerta, con quel tanto di ironia che lo rende memorabile e godibilissimo.

Il segreto? Dire una sola cosa. Un’idea che va dritta al punto, e il punto stesso. Punto e basta. Senza l’ansia di perdere una golosa occasione per dire anche quello e quell’altro. Le campagna davvero memorabili hanno detto sempre una cosa soltanto. Per questo sono memorabili. E ora, pubblicità.