L’uso dei testimonial ha sempre esercitato un grande fascino sulle aziende. Pagando un prezzo più o meno modico, un marchio ha la convinzione di comprare una storia e una fama già acquisiti, risparmiando tempo e fatica. Ma il gioco non è così facile, e ha le sue controindicazioni. Per esempio, il mio testimonial potrebbe farsi beccare in macchina con una minorenne, o anche solo esprimere opinioni avventate su un tema controverso. E in quel caso non soltanto avrei sprecato del denaro, ma avrei arrecato al marchio un danno incalcolabile: la fama amplifica il bene e il male.
I creativi non amano troppo i testimonial, spesso usati al posto di una buona idea (che costa di meno, e funziona altrettanto bene). Talvolta si usano usare testimonial a loro insaputa, come ha fatto Apple con Einstein o Telecom con Gandhi. Il banale assunto “se lo usa lui che è famoso, vuol dire che il prodotto è davvero buono” non funziona più dal Pleistocene. Oggi il target è molto più smaliziato, e nessuno pensa che davvero Antonio Banderas mangi a casa sua i biscotti del Mulino Bianco. Anzi, sono in molti a sospettare che lui ne parli bene solo perché lautamente pagato.
Nella mia vita professionale ne ho usati talvolta, senza traumi. Arnoldo Foà in foto e in voce, per un’opera editoriale dedicata al teatro. Renato Pozzetto per il panettone Motta. L’allenatore Carlo Mazzone per una linea di videogiochi chiamata “Il mio coach”. Un’infinità di personaggi televisivi di successo, per telepromozioni di ogni tipo. L’importante – ho sempre pensato – è che il testimonial interpreti sé stesso, e che sia coerente con il prodotto. Ma vediamo alcuni possibili aspetti critici.
La scelta. Il primo dei problemi: è famoso abbastanza? È troppo connotato? Trasmette valori coerenti con la marca e con il prodotto? È in ascesa o in discesa? Curiosamente, testimonial stranieri possono essere abbastanza a buon mercato, a patto che la campagna sia solo locale e non sia mai vista in patria, dove la loro immagine può restare immacolata.
La riconoscibilità. Assolutamente da evitare le situazioni in cui il testimonial è costretto a dire “Sono Tizio Caio”. Possibilmente da evitare scritte in sovrimpressione che lo identificano. Tradiscono la paura che non sia riconosciuto, e per un testimonial è un controsenso. A meno che il nostro testimonial non sia tale per il suo ruolo o la sua professione, e non perché famoso.
Proiezione o desiderio? Vecchio dilemma: il testimonial deve incarnare il desiderio del target (come si suppone faccia Banderas nei confronti delle mamme italiane) oppure la proiezione di come vorrebbe vedersi (vedi le supermodel arruolate dalle industrie dei cosmetici)? Il meccanismo della proiezione può essere scivoloso, come nel caso del claim di L’Oréal “Perché io valgo”, che detto da Claudia Schiffer sembrava irridere la povera casalinga di Voghera. A peggiorare le cose fu poi aggiunto “E anche voi”, con l’effetto di una pezza a colori.
L’uscita di scena. Il momento più delicato: il vecchio testimonial è diventato troppo ingombrante, o ha alzato troppo le sue pretese; o comunque per qualche motivo il marchio ha deciso di liberarsene. Per non sparire ex abrupto, il vecchio passa il testimone al nuovo (o a un nuovo personaggio anonimo), accomiatandosi dal target con pretesto narrativo. Memorabile fu il tentato sgancio di Vodafone da Megan Gale, semisconosciuta modella australiana diventata troppo famosa, o troppo bella, o troppo esosa, chissà. Fu inventata una complicata storia in cui lei si trasformava in un’anonima bionda, ma il trapasso fu sofferto e lasciò orfani molto italiani. In questi giorni vediamo Mika affiancare Raul Bova in un armonioso ménage a Tre, ma scommetterei che prenderà presto il posto di Raul al fianco di Teresa Mannino (e rischiando di creare un po’ di confusione con Sky/Fastweb, come nota Wired).
L’argomento è complesso, e non può essere esaurito in poche righe. Ma una cosa si può ricordare: un’idea può fare a meno di un testimonial, ma un testimonial non può fare a meno di un’idea. E ora, pubblicità.