Archivi autore: Fabio Gasparrini



La perduta identità dei marchi.

Automobile

Un discorso sulla brand identity, oggi, potrebbe facilmente partire dalla comunicazione automotive. C’è stato un tempo non lontano in cui i marchi automobilistici avevano una loro precisa identità, fatta di tono di voce prima ancora che di concetti-chiave. Sobrio e understating quello di Audi, ironico e graffiante quello di Volkswagen, allegramente popolare quello di Fiat, raffinatamente snob quello di Mercedes (memorabile lo spot in cui, dopo aver mostrato l’auto parcheggiata nel box, il protagonista ne usciva in bicicletta). Giusti o sbagliati che fossero, erano univoci.

volvo-safety-pin

Non solo: i grandi marchi automobilistici si sono storicamente appropriati di valori, grandi concetti-ombrello a cui tutta la loro comunicazione (e ogni singola campagna di prodotto) doveva sottostare con coerenza. “Sicurezza” era il valore strategico per Volvo (celebre la campagna istituzionale safety pin qui sopra riportata), “Affidabilità” per Volkswagen, “Sportività” per Alfa Romeo, eccetera. Questo naturalmente non voleva dire che una Volvo non potesse anche essere bella, o che un’Alfa non fosse sicura. Ma la scelta coraggiosa di un concetto, e uno soltanto, costituiva un posizionamento, e sedimentava nella mente dei consumatori.

E oggi? La sensazione è che i marchi stiano vivendo di rendita, dei frutti di quel felice periodo. Con le dovute e doverose eccezioni, l’attuale comunicazione automotive non sembra andare oltre la classica foto-tre-quarti-frontale, con il nome del modello a sostituire la headline. Una comunicazione no-concept. Col risultato che gli annunci e gli spot di auto si allineano uno affianco all’altro, deprimentemente uguali e identicamente immemorabili.

Se la comunicazione delle auto rinuncia a un’identità, è anche perché il prodotto stesso vi ha rinunciato. Le gallerie del vento hanno disegnato auto che col passare degli anni hanno finito per avere le stesse forme. E l’evoluzione delle tecnologie sta rapidamente portando all’Auto Unica, mediamente buona e totalmente globalizzata.

Resta il fatto che il marketing potrebbe ridare un’anima a questi oggetti inanimati, costruendo o rafforzando un posizionamento intorno a valori che sono l’unica difesa a lungo termine della guerra dei prezzi. D’accordo, sono tempi difficili anche per i produttori d’auto. Tempi in cui cercare di vuotare i piazzali alla svelta, con buona pace della brand identity. Ma nonostante la crisi, c’è ancora chi non sceglie un’auto guardando solo al listino. E cerca invece in un marchio un’identità in cui sentirsi a suo agio, come in un paio di scarpe comode. E ora, pubblicità.



La creatività (III): quanto vale.

Con questo post, si conclude questo ragionamento a tre tappe. Ricapitoliamo. In estrema sintesi, la creatività è quella cosa che permette al mio messaggio di essere notato, recepito e ricordato. Dal momento che il costo media non cambia, funziona quindi come un moltiplicatore del mio investimento e lo fa fruttare. Un valore aggiunto, quindi. Ma quanto vale questo valore?

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Parlare della remunerazione di agenzia vorrebbe dire aprire un discorso complesso, legato alla stessa struttura dell’industria della comunicazione, profondamente trasformata negli ultimi quindici anni. Il concetto stesso di “servizio completo” è cambiato con l’avvento dei centri media, e non basta certo questo post a esaurirlo. Restiamo quindi alla creatività. Quanto vale, quanto costa?

Naturalmente, dipende moltissimo da chi la vende, chi la compra, dalla complessità del progetto, dall’entità dell’investimento. Ma cerchiamo di restare sui principi generali: se pago 100 il dove comunico (il media), quanto potrà valere il cosa comunico (la strategia) e il come comunico (la creatività), che come abbiamo visto è il valore aggiunto al mio messaggio? 10 sembra un ordine di grandezza sensato da cui partire, anche in tempi insensati come questi, considerando anche un 5 di costi di produzione. Attenzione: non sto qui proponendo un fee di agenzia, piuttosto una riflessione complessiva sul valore del nostro lavoro.

Una riflessione forse non inutile, dal momento che spesso si comprende il valore degli spazi media (si contano, si misurano in centimetri, in secondi, in pixel, in reach, in copertura, in frequenza) ma non il valore aggiunto dato dalla creatività. Forse perché immateriale? Il fatto che oggi molti editori lo regalino ai propri clienti insieme al costo dei media non aiuta. Al di là del giudizio di merito sul valore di questo regalo, è evidente che un regalo non è: viene semplicemente incluso nel valore dell’investimento media, che per l’impresa è più facile da comprendere e da negoziare. Un semplice riempitivo di spazi vuoti. Ma alle agenzie che vendono creatività, è sempre più difficile far comprendere e riconoscere il valore del loro prodotto: le idee. Da qui il crollo delle remunerazioni e di un sistema, e la perdita di rilevanza dei creativi nell’industria (pochissime agenzie sono oggi guidate da creativi). E, di riflesso, l’abbassamento del livello creativo della comunicazione (vedi un mio post precedente): se non riconosco il valore di qualcosa, quel qualcosa finirà per perdere realmente valore.

Nel lontano 1983, David Ogilvy scrisse, in una Lettera aperta a un cliente in cerca di un’agenzia: “Chiedete qual è la commissione richiesta. Se è il 15%, insistete per pagare il 16%. Quell’1% in più non vi ucciderà, ma raddoppierà il profitto dell’agenzia, e riceverete un servizio migliore.” (Ogilvy on Advertising, Vintage Books, 1985). Oggi fa quasi ridere. Ovvio, sono passati milioni di anni. Tutto è cambiato. Siamo in una crisi sistemica, prima ancora che economica. Ma ragionare su valori e valore è ancora possibile. E ora, pubblicità.



La creatività (II): a cosa serve.

leva

Riprendiamo il discorso con un’osservazione semplice, addirittura banale, eppure potenzialmente rivoluzionaria: una pagina con una comunicazione irrilevante costa esattamente quanto una pagina con un messaggio memorabile. Lo stesso vale per uno spazio in TV, per un’affissione o per un banner. Parliamo del costo del mezzo, dell’investimento media che normalmente vale l’80-85% dell’investimento complessivo che un marchio fa per una campagna pubblicitaria.

Memorabile o irrilevante che sia il contenuto, lo spazio costa uguale. Sembra ovvio. Ma se è così ovvio, come mai si vede così tanta pubblicità noiosa, che come un bel compitìno mostra il prodotto e il marchio e magari fa anche la sua bella promessa, ma non ha alcuna speranza di essere notata, guardata, ricordata?

Torniamo per un attimo a quanto si diceva nell’ultima pillola. Se la creatività è quella cosa che permette al mio messaggio di essere notato e ricordato fra gli altri, possiamo provare a darle una definizione un pochino più business friendly: la creatività è un potente moltiplicatore di investimento, una leva che ne amplifica gli effetti, a parità di costo media. Interessante, no? Il budget media resta lo stesso: ma con la creatività è un investimento che frutta, senza creatività rischia di essere denaro gettato al vento.

Questa considerazione è ancora più valida se l’investimento non è a sei zeri. Una pressione massiccia può in qualche modo surrogare la creatività, e farsi notare per frequenza. Ma proprio quando il budget media non giganteggia, la creatività può venire in soccorso, e dare comunque a una campagna delle chance di fare capolino dalla marmellata mediatica.

Concludendo, la creatività non è un capriccio estetico, e non serve a pascere l’ego di qualche creativo (magari fa anche quello, ma come effetto collaterale) o a vincere premi. Non serve solo a costruire un’identità di marca in modo più preciso e raffinato. La creatività è un vero marketing tool, una leva che amplifica e fa fruttare il nostro investimento in comunicazione, un valore aggiunto terribilmente concreto e monetizzabile. Ma di questo parleremo domani nell’ultima puntata. E ora, pubblicità.



La creatività (I): cos’è.

Vorrei postare, da oggi e per tre giorni consecutivi, qualche riflessione sulla creatività: cos’è, a cosa serve e quanto vale. Non ho la presunzione di esaurire l’argomento in qualche post. Sono semplici opinioni e definizioni abbastanza personali, condivisibili o meno.

Tempo fa, a un seminario, mi chiesero di definire cosa fosse la creatività. C’era sul tavolo un settimanale e ne contai le pagine: erano 100 in tutto, e di queste 50 erano messaggi pubblicitari. Immaginiamo di essere comodamente seduti, magari in treno, e di leggerlo tutto insieme, articoli e pubblicità. Alla fine, di quei 50 messaggi, quanti ne ricorderemo? Due? Tre? Non credo di più.

Ecco: la creatività è quella cosa che fa sì che il messaggio del mio cliente sia uno di quei due o tre. Come ci riescano, è più difficile da capire, e da spiegare. Naturalmente, ci sono i messaggi che come lettore mi interessano per ragioni contingenti. Se sto pensando di comprare una nuova lavatrice, guarderò ogni annuncio di lavatrici con interesse. Ma suscitare un interesse che non esiste in partenza, è molto più difficile.

Cliente: Salumificio Gasser; agenzia: TBWA Italia, 2008

Cliente: Salumificio Gasser; agenzia: TBWA Italia, 2008

La creatività è quindi quella cosa che dà a chi ci legge (o guarda alla TV, o ascolta alla radio, eccetera) un buon motivo per soffermarsi sul nostro messaggio, e che lo rende rilevante. Lo diamo per scontato, eppure il lettore (o telespettatore, etc) non è affatto tenuto a farlo. Di messaggi ne riceve passivamente migliaia ogni giornata, eruttano dal suo PC, dal suo giornale, dai muri della sua città. Perché dovrebbe ricordarsi proprio del nostro?

I meccanismi che funzionano sono diversi. Possono usare tecniche retoriche, come la metafora o l’iperbole. In ogni caso, dire o mostrare qualcosa di interessante, perché intelligente, o inaspettato, o in grado di suscitare un sorriso che abbassa le nostre difese immunitarie verso la pubblicità. Il piacere della decodifica del messaggio (se non è un rebus da risolvere) è più coinvolgente di un imperativo. Mostrare un uomo e una donna felici perché usano il nostro prodotto non è molto interessante. Difficilmente la visione di una confezione del prodotto – contrariamente a quanto pensano molte aziende – scatena gli entusiasmi del target. Per un uomo d’azienda, il suo prodotto è il centro del mondo. Per un consumatore, è una scatola come tante.

Cliente: Volkswagen; agenzia DDB, 1962

Cliente: Volkswagen; agenzia DDB, 1962

La provocazione fine a sé stessa, senza un legame logico col prodotto o con il nostro messaggio, è quasi sempre irritante e controproducente. Gli effetti speciali, le megaproduzioni possono aiutare, ma solo se asserviti a una grande idea e non se fini a sé stessi. E comunque non sempre sono indispensabili: la pagina riprodotta qui sopra (il solito Bernbach, uno degli inventori della comunicazione moderna) ne è un esempio.

Insomma, la creatività è quello strano mix di tecnica e (qualche volta) genio che rende il mio messaggio degno di essere ricevuto, accolto, e forse anche ricordato. Questo fa la differenza. Insieme a una considerazione elementare ma sorprendente, che sarà l’inizio della seconda puntata, in onda domani su questo Blog. E ora, pubblicità.



Think short.

Chi l’ha detto, che la creatività ha bisogno di formati lunghi? Questi celebri spot da 10 secondi – realizzati dalla J. Walter Thompson di Londra per Vodafone – sono la prova che si può essere molto creativi anche grazie ai formati brevi. Tanto creativi da vincere un argento a Cannes nel 2006. In questo caso il fattore tempo viene usato proprio per sottolineare l’offerta: una serie di velocissimi scambi di battute, fra due promessi sposi (“E’ cancellato.” “Nessun problema.”), fra figlio e madre (“Sono due gemelli. “Grazie per aver chiamato.”) e fra figlio e padre (“Papà, sono gay.” “Eccellente.”) Seguiti da uno speaker che presenta l’offerta: “Ci sono momenti che durano più di una conversazione da 3 minuti. Parla fino a 60 minuti, paga solo per 3. Con Vodafone Stop-the-clock.”

Non solo il tempo non è un limite, ma anzi la sua brevità costituisce il tempo comico ideale per lo spot. Fossero stati più lunghi, avrebbero perso questo ritmo che li rende perfetti. Il risultato? Un messaggio chiaro sull’offerta, con quel tanto di ironia che lo rende memorabile e godibilissimo.

Il segreto? Dire una sola cosa. Un’idea che va dritta al punto, e il punto stesso. Punto e basta. Senza l’ansia di perdere una golosa occasione per dire anche quello e quell’altro. Le campagna davvero memorabili hanno detto sempre una cosa soltanto. Per questo sono memorabili. E ora, pubblicità.



Gli italiani in rete.

in retePrendo a prestito una foto da noi fatta per Discovery Channel qualche anno fa, per fare qualche considerazione sulla Rete. In questi giorni di dibattito politico permanente, ci si chiede se e quanto la Rete rappresenti davvero gli italiani. “La mia candidatura girava in Rete da mesi”, si sente dire. O peggio ancora: “Lo chiede la Rete”. Candidati vengono proposti alle Camere, o addirittura al Quirinale, con poche centinaia di voti online. Politici e giornalisti vivono appesi all’ultimo tweet proveniente dalla “base”, che determinano linee politiche e frettolosi incontri di direzione.

La Rete genera sentimenti di ammirazione e timore, e diventa un’entità sfuggente in nome delle quale tutto si fa e si disfa. Le stesse dinamiche si stanno impossessando anche del marketing, come già accennato nel mio precedente post. Ma la Rete siamo davvero noi, coincide davvero con l’Italia, la rappresenta?

Ci sono due risposte, una quantitativa e una qualitativa. Partiamo dalla prima. Gli ultimi dati ISTAT dicono che il 52,5% della popolazione italiana usa Internet, anche se quelli che lo fanno regolarmente (su basi quotidiane) sono il 29,5%. Anche scegliendo il primo dato, siamo lontani dalle percentuali di Svezia (91%), Olanda (90%), UK (81%) ma anche Francia (74%). Colpa delle infrastrutture e del digital divide (provate a collegarvi da un qualunque treno che traversa la Padania Felix). Ma anche colpa della nostra scarsa cultura tecnologica, visto che il 43,3% dichiara di non possedere un accesso Internet perché non ha le competenze per utilizzarlo. Cosa vuol dire? Che quando parliamo di Rete (si tratti di politica o di marchi), stiamo parlando al massimo di metà degli italiani. Gli altri sono fuori, non votano online, non ci seguono su twitter e non vedranno mai il nostro magnifico sito nuovo.

La risposta qualitativa ci dice che con tutta probabilità gli italiani online sono più giovani, moderni, aperti e curiosi della media nazionale. Non necessariamente migliori, ma di fatto queste sono le  caratteristiche naturali della Rete. Rappresentano solo quindi una parte del Paese, e non soltanto nei numeri. L’Italia più arcaica e conservatrice è di fatto sottorappresentata dalla Rete. Non solo: i navigatori attivi (quelli che partecipano votando, cliccando, scrivendo, commentando) sono una minuscola frazione rispetto ai navigatori passivi. Una minoranza rumorosa, preziosa in certi casi ma che rischia di apparire più rappresentativa di quanto effettivamente sia.

Le conclusioni? La Rete è certamente il fenomeno dei nostri tempi, da conoscere e da presidiare. Ma non è il Paese (o perlomeno non lo è ancora). E quindi non può essere l’unico mezzo su cui puntare (o perlomeno non ancora), a meno che il nostro prodotto non abbia una naturale affinità culturale, o demografica, o tecnologica, col mezzo. E se il nostro prodotto è un partito politico, è un bel rischio. Buona Liberazione a tutti. E ora, pubblicità.



Come funziona.

sintesi

Qualcuno di voi avrà già visto da qualche parte questo schemino. Io ne ho trovate innumerevoli varianti, con categorie di pensiero aggiuntive e definizioni più arzigogolate, ma sono tornato a questo modello: nella sua semplicità e suprema sintesi, è perfetto. Descrive perfettamente le variabili in gioco nel quotidiano rapporto fra cliente e agenzia, nel mettere a fuoco come si vorrebbe il lavoro: Buono? Veloce? Economico?

Naturalmente, tutti e tre. E infatti, il luogo ideale agognato da ogni cliente è il triangolo nero al centro, quello segnato con NO, che in altre varianti porta la scritta “Utopia”. Purtroppo è vero, la banale aritmetica degli ingredienti la rende impossibile.

Il luogo ideale del creativo (almeno del buon creativo) è probabilmente all’interno del cerchio di GOOD, ma porta al bivio esistenziale fra la direzione del FAST e quella del CHEAP. Cioè a scegliere fra stress e indigenza. Per risolvere il dubbio, negli ultimi anni i creativi stanno organizzandosi in modo da sperimentare entrambi, ma contemporaneamente.

Tanta sintetica perfezione rende superflua ogni altra parola, per cui chiudo qui il post. E ora, pubblicità.



La legge del taglione.

Questa settimana pubblico un annuncio scritto da qualcun altro. Ammetto subito il mio furto, perché l’annuncio è giustamente famoso, ed è stato firmato da Pasquale Barbella, uno dei migliori copywriter della breve storia dell’italico advertising. Non vorrei esagerare nella mia elegia, perché Pasquale è vivo e vegeto, e si gode una meritatissima pensione. Ma il messaggio che lui ha rivolto alle imprese nel lontano 1992 è di straordinaria attualità, e vorrei rinfrescarne la memoria. È vero, oggi la recessione non è più “un’aria” ma una certezza, e non si parla più di “pubblicità” ma di comunicazione integrata. Ma i tagli ci sono, eccome. Sono ormai entrati nel nostro modo di pensare: tagli di fee, di investimenti, di teste, di costi di produzione; tagli anche di tempi, di pensiero e talvolta anche di buonsenso, con l’alibi di un’emergenza che dovrà pur finire. Prima che la legge del taglione ci restituisca tagli di fiducia, di crescita e di prospettive.

tagliare un budget

Per comodità di lettura, riporto a seguire il testo di questo annuncio di vent’anni fa. Le lettrici di questo blog perdoneranno la garbata ironia dei doppi sensi. Leggerlo (o rileggerlo) potrebbe essere una buona occasione per meditare sui corsi e i ricorsi della storia. Buona lettura. E ora, pubblicità.

Quando c’è aria di recessione, qual è la prima tentazione delle imprese? Dare un taglio a quella piccola appendice che si chiama pubblicità. C’è chi taglia il 10%. Chi il 20%. Chi, chiudendo gli occhi e stringendo i denti, addirittura il 100%. Piccoli o grandi che siano, questi tagli fanno più male che bene. Servono forse a rinsanguare (di poco) il bilancio di fine anno. Ma tolgono al marketing uno dei suoi strumenti più gagliardi. Le marche, abbandonate a sé stesse, entrano in crisi di astinenza. I posizionamenti vacillano. La penetrazione ne soffre. Insomma, dalle amputazioni non nasce mai un granché. Perché sono il risultato di un intervento di chirurgia tattica, mentre è proprio nei momenti difficili che le strategie devono essere più toste. Perciò, care imprese, non lasciatevi prendere dal panico. È un consigliere subdolo, pronto a suggerire le decisioni più fallaci. Prima di fare zac! pensateci due volte. Ve lo dice qualcuno che sta risparmiando sui taxi, ma che ha pagato senza batter ciglio questa doppia pagina di Media Key. Nel proprio interesse. Ma soprattutto nel vostro. Invece di fare marcia indietro, guardate avanti. E chiedete alla vostra agenzia (o alla nostra, se preferite) di farvi vedere cosa è capace di fare. E se proprio volete tagliare qualcosa, tagliate questo piè di pagina con i nostri indirizzi e numeri di telefono. Coraggio.



E se è un carattere, si chiamerà Futura.

Se si chiamano caratteri, ci sarà un motivo. Sono loro che danno a un titolo, a un testo, al nostro messaggio il tone of voice. Non è solo un fatto estetico, ogni carattere ha il suo carattere: pacato o autoritario, lezioso o essenziale, dovrebbe essere quello più giusto per il nostro messaggio, e per il nostro cliente. E’ così che un testo parla al di là delle parole che usa. Senza essere un esperto, credo di essere uno dei copywriter più innamorati della tipografia in circolazione.

futura

Il Futura è un carattere senza tempo. Figlio dell’avanguardia razionalista degli anni ’20, e della tendenza a ricondurre le forme dell’architettura e del design alle loro componenti elementari, nasce quando il grafico tedesco Paul Renner vede i disegni di un alfabeto che il suo allievo Ferdinand Kramer aveva disegnato per l’insegna della cappelleria del padre, come racconta Giovanni Lussu nell’affascinante “Caratteri eminenti” (Farsi un libro, Biblioteca del Vascello, 1990). Il giovane Kramer aveva frequentato la Bauhaus, e Renner è affascinato dal rigore e dall’equilibrio del carattere. Ma c’è un problema: Kramer ne ha disegnato solo le maiuscole e le cifre. Renner si mette al lavoro sulle minuscole, ma il compito è più arduo del previsto: il rigore geometrico delle maiuscole (come la O perfettamente circolare, o lo spessore del tratto sempre costante) non funziona nelle minuscole, le rende rigide e poco leggibili. Alla fine, vincerà il compromesso, e il Futura – prodotto a partire dal 1927 – verrà trionfalmente presentato da Renner alla Triennale di Milano del 1933.

Il Futura nella comunicazione Volkswagen

Fu un grande successo, le sue linee pulite ed essenziali sono entrate nella storia della tipografia. Fu il Futura che scelse l’art director Helmut Krone per il format grafico delle leggendarie campagne Volkswagen: una scelta che ha resistito dal 1959 fino a oggi (Bold per i titoli, Book per i testi). Molti marchi importanti lo hanno adottato come proprio carattere istituzionale (in Italia, Banca Popolare di Milano, Rai e Trenitalia, oltre al nostro cliente Università di Pavia, nella versione Light tutto maiuscolo). Come avere ottantasei anni, e portarli splendidamente.

E ora, pubblicità.