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Cinque consigli per comunicare meglio con la vostra agenzia e vivere felici.

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Siete un’azienda. Avete affidato alla vostra agenzia di comunicazione (o al vostro studio grafico, o a un bravo professionista) la realizzazione di una brochure o di uno stampato informativo. Ecco qualche accortezza per evitare di portare i vostri consulenti alla pazzia, comunicare meglio con loro e magari innamorarvene.

1. Prima si approvano i testi, poi si impaginano.
Un’impaginazione non si fa con un clic. Bisogna curare gli allineamenti dei testi  e della grafica, le andate a capo, i tagli delle immagini, i pesi e gli equilibri, insomma è un’operazione lunga e paziente. Non pretendete quindi di rivedere il testo, e magari stravolgerlo, dopo che è stato impaginato. E non aspettate quel momento per farlo leggere al vostro capo, perché fa più bello. Qualsiasi modifica rilevante costringerebbe il grafico a reimpaginare la pagina in questione e le pagine a seguire, perché il testo scorre. Tutto lavoro extra, che costa tempo e denaro. A meno che non siate disposti a pagarlo in più, trasmettete loro i testi solo quando sono definitivamente approvati. Potrete sempre correggere eventuali refusi e singole paroline in fase di correzione di bozze.

2. Ricordate che le immagini non sono gratis.
Un’immagine di qualità (fotografia, illustrazione) non si trova in rete. Se anche si trovasse, e fosse di qualità stampabile, apparterrebbe a qualcuno e non potrebbe essere usata a sbafo, soprattutto non per fini commerciali. Le soluzioni sono due: o usate immagini di vostra proprietà – possibilmente commissionate a un professionista, fotografo o illustratore – o delle quali detenete i diritti, oppure potete comprarle da banche immagini. Ce ne sono decine, con immagini belle e squallide, con diritti liberi o negoziabili, prezzi medi o irrisori. Per entrambe le soluzioni, la vostra agenzia saprà assistervi (è il loro lavoro). Qualunque soluzione scegliate, accettate l’idea che niente è gratis, soprattutto se è bello e dà valore al vostro strumento.

3. Acquisite nelle minime nozioni tecniche.
È vero, il lavoro lo fa l’agenzia, o il grafico. Ma sarebbe il caso che anche voi, come committente, sapeste di cosa di parla. Ad esempio, non mandate all’agenzia una foto o un marchio tirati giù da un sito web. Se non l’hanno fatto da soli, il motivo c’è: si tratta quasi sempre di immagini alleggerite per il web, a bassa risoluzione (72 dpi), là dove per una stampa servono almeno 300 dpi. Un file JPG puà andar bene se non è troppo compresso, ma se pesa solo 37 Kb è difficile che abbia una definizione sufficiente. Sicuramente, chi ha fatto il vostro marchio ve ne ha trasmesso i file master, cercateli e mandate all’agenzia un file di buona definizione, possibilmente vettoriale, magari insieme a quel manuale d’uso che non avete mai guardato.

4. Non usate strumenti inutili (e sbagliati).
Per inviare una foto, non serve veicolarla dentro la pagina bianca di un documento Word o Powerpoint. Non sono applicazioni fatte per quello, comprimeranno le immagini e le renderanno inutilizzabili. Inviatela da sola, come file immagine. Se sono tante o troppo pesanti, e non avete modo di caricarle su qualche server, usate un servizio gratuito tipo WeTransfer per inviarle. Non usate Word o Powerpoint per impaginare testi e immagini, aspettandovi che l’agenzia usi quel documento come bozza. Il lavoro dovrà comunque essere rifatto con del software professionale. Molto meglio chiarire prima i vostri obiettivi, e lasciare che sia il grafico a farvi la sua proposta.

5. Siate puntuali e precisi per la vostra parte.
Chiedete a voi stessi la stessa puntualità e precisione che (giustamente) chiedete alla vostra agenzia o al vostro grafico. Non farete un favore a loro, lo farete anche alla buona riuscita del lavoro, e quindi a voi stessi. Rispettate la tabella di marcia che avete concordato, nel fornire materiali o riscontri al lavoro già fatto. Se per dare un’approvazione ci mettete tre giorni più del previsto, o accettate che slitti la consegna, o qualcuno dovrà lavorare la notte per recuperare, e probabilmente non siete voi. Trasmettete le vostre richieste tutte insieme, evidenziando le correzioni su un file Word (o Pages), o meglio ancora con delle note sul PDF dell’impaginato. Mandarle in sette mail diverse obbligherà il grafico ad aprire altrettante volte il lavoro, e renderà molto più facile perdere per strada qualche pezzo.

Buon lavoro! E ora, pubblicità.



La comunicazione in tempo reale.

Leggo che il gruppo Havas Media Group ha sviluppato uno strumento per la valutazione in tempo reale di Twitter. Si chiama WDMTG (Where Does My Tweet Go?) e offre insight particolarmente granulari (sic) utili a interpretare i dati mentre vengono generati, in tempo reale, sulla Twittersphere.

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Torno per un attimo alle teorie sull’ideologia del controllo, già esplicitate nei miei post qui e qui. E immagino le scrivanie dei marketing manager, sempre più somiglianti al cockpit di un cacciabombardiere: numerini cangianti ovunque, i click delle Adwords, le visite delle Analytics, adesso gli insight granulari sulla twittersphere. Post traccianti inseguono il target e lo colpiscono con precisione chirurgica. Dove lo mettiamo il brand, dottore? Un po’ più a destra? Un pelo più in alto?

E mi domando se, a quella velocità, il pilota abbia il tempo per capire in che direzione sta andando. E ora, pubblicità.



The Times is a-changing.

Può la scelta di un carattere influenzare milioni di persone? Se è quello adottato da un grande quotidiano, certo che può. La Repubblica ha cambiato format grafico, e naturalmente già fioccano le polemiche. Il carattere è più piccolo, dicono. Non si legge, dicono i lettori della carta stampata (la cui età media ogni anno sale inesorabilmente).

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In realtà, non è vero che il nuovo carattere usato è più piccolo. E’ solo più sottile, il che dà questa sensazione di “troppo bianco” he alcuni lamentano, e che invece può aggiungere alla grafica dei nostri giornali un pizzico di quella eleganza molto anglosassone, che usa lo spazio (e non l’inchiostro) per dare rilevanza a un titolo (eccezion fatta per il Sun e il resto della stampa popolare, of course). Non a caso, assomiglia molto al carattere usato dal New York Times.

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Il nuovo carattere scelto per i titoli – quasi sicuramente un Cheltenham –  è un carattere graziato, cioè provvisto di grazie, che sono le stanghette che interrompono le linee. È anche aggraziato, e non si presta a essere usato in bold, o grassetto. Il che vuol dire implicitamente negargli la possibilità di urlare. L’autorevolezza, un titolo, dovrà guadagnarsela da sé. Diamo così addio al vecchio carattere usato per i titoli di Repubblica, un Times leggermente condensato (cioè compresso in modo da rendere ovali le lettere rotonde, e permettere più testo nello stesso spazio).

Il Times è stato abbandonato anche nei testi, a favore dell’Egyptian. Un carattere meno condensato e meno fitto, che dà la sensazione (reale?) di essere più piccolo, e anche meno leggibile. Ma forse è solo questione di abitudine.

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Il vecchio e glorioso Times merita qualche parola di commiato. Fu uno dei rari casi di carattere commissionato ad hoc per un quotidiano. L’anno era il 1932, il designer Victor Lardent (che aveva lavorato su un precedente progetto di Stanley Morison), il quotidiano naturalmente The Times. Il carattere era stato progettato per essere funzionale, per garantire cioè la massima leggibilità nel minore spazio. Ma i tempi cambiano, e cambia anche il Times. E ora, pubblicità.



Back to the future.

È tornato Carosello, ma il tentativo di rilancio del format si è rivelato un flop, almeno da un punto di vista creativo, come si nota (giustamente) qui e qui. Insieme a Carosello sta tornando la pubblicità di venti o trent’anni fa. Un settimanale di intrattenimento ha presentato in edicola una serie di DVD con gli spot degli anni ’60, e qualche mese fa ha rifatto capolino in TV il mitico Gringo, indimenticato testimonial spaghetti western della carne Montana (gruppo Cremonini).

Il confronto, più che difficile, è inutile. A parte i tempi del vecchio Carosello, che oggi appaiono dilatati al limite della sopportazione, la versione originale era piena di invenzioni grafiche e stilistiche, realmente innovative per l’epoca.

Non è la prima volta che la pubblicità cita sé stessa, o meglio i suoi tempi d’oro. Ma il vero punto è: perché questo ritorno al passato? Forse non ci sono più idee? Non credo. Credo invece che questa sia la prova più lampante di come una comunicazione coerente sia stata in grado, in passato, di costruire valore intorno alla marca. Un asset imponente, al punto da poter essere ancora capitalizzato a distanza di cinquant’anni. E di questi nostri folli anni, cosa resterà fra cinquant’anni? Temo poco. I marchi hanno troppa fretta, troppa impazienza, cambiano agenzia ogni pochi mesi, comprano progetti a breve termine, con molti accessori e poche fondamenta. E i nostri figli non avranno neanche la soddisfazione di riguardarsi le vecchie pagine di Facebook. E ora, pubblicità.



L’ideologia del controllo.

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Cito qui un passaggio dedicato a una delle più perniciose malattie delle imprese (italiane e non solo), che sta producendo effetti nefasti anche sulla loro comunicazione. Mi sembra interessante notare che non viene dal solito creativo frustrato, ma da un riconosciuto guru del management:  Gary Hamel è un’autorità indiscussa del management, “il re della strategia nel business” secondo The Economist (Hamel, Gary. “25 strategie per tempi difficili – Ciò che va fatto oggi per vincere domani.” Rizzoli Etas, 2012. iBooks).

Per quale motivo le nostre organizzazioni sembrano meno adattabili, meno innovative, meno vivaci e meno generose delle persone che vi lavorano? Che cosa le rende disumane? Ecco la risposta: un’ideologia del management che fa del controllo un idolo da adorare. Quali che siano le affermazioni retoriche che sostengono il contrario, il controllo è la principale preoccupazione della maggior parte dei manager e dei sistemi manageriali. Anche se la conformità (ai budget, agli obiettivi di performance, alle politiche operative e alle norme lavorative) crea valore economico, i suoi risultati sono inferiori a quelli del passato. Ciò che oggi crea valore è il prodotto geniale e del tutto inatteso, la campagna mediatica brillantemente originale e la customer experience completamente nuova. La faccenda è che, in un regime in cui il controllo regna sovrano, tutto ciò che è “unico” viene prodotto con grande fatica. La scelta è netta: possiamo rassegnarci al fatto che le nostre organizzazioni non saranno mai maggiormente adattabili, innovative o ispiratrici di quanto lo siano adesso, oppure possiamo cercare un’alternativa alla dottrina del controllo. Non sono sufficienti migliori procedure aziendali e migliori modelli di business: ciò di cui abbiamo bisogno sono princìpi più saldi. Ecco perché adesso l’ideologia ha più importanza di quanta ne abbia mai avuta in precedenza.



Il fascino spericolato del testimonial.

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L’uso dei testimonial ha sempre esercitato un grande fascino sulle aziende. Pagando un prezzo più o meno modico, un marchio ha la convinzione di comprare una storia e una fama già acquisiti, risparmiando tempo e fatica. Ma il gioco non è così facile, e ha le sue controindicazioni. Per esempio, il mio testimonial potrebbe farsi beccare in macchina con una minorenne, o anche solo esprimere opinioni avventate su un tema controverso. E in quel caso non soltanto avrei sprecato del denaro, ma avrei arrecato al marchio un danno incalcolabile: la fama amplifica il bene e il male.

I creativi non amano troppo i testimonial, spesso usati al posto di una buona idea (che costa di meno, e funziona altrettanto bene). Talvolta si usano usare testimonial a loro insaputa, come ha fatto Apple con Einstein o Telecom con Gandhi. Il banale assunto “se lo usa lui che è famoso, vuol dire che il prodotto è davvero buono” non funziona più dal Pleistocene. Oggi il target è molto più smaliziato, e nessuno pensa che davvero Antonio Banderas mangi a casa sua i biscotti del Mulino Bianco. Anzi, sono in molti a sospettare che lui ne parli bene solo perché lautamente pagato.

Nella mia vita professionale ne ho usati talvolta, senza traumi. Arnoldo Foà in foto e in voce, per un’opera editoriale dedicata al teatro. Renato Pozzetto per il panettone Motta. L’allenatore Carlo Mazzone per una linea di videogiochi chiamata “Il mio coach”. Un’infinità di personaggi televisivi di successo, per telepromozioni di ogni tipo. L’importante – ho sempre pensato – è che il testimonial interpreti sé stesso, e che sia coerente con il prodotto. Ma vediamo alcuni possibili aspetti critici.

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La scelta. Il primo dei problemi: è famoso abbastanza? È troppo connotato? Trasmette valori coerenti con la marca e con il prodotto? È in ascesa o in discesa? Curiosamente, testimonial stranieri possono essere abbastanza a buon mercato, a patto che la campagna sia solo locale e non sia mai vista in patria, dove la loro immagine può restare immacolata.

La riconoscibilità. Assolutamente da evitare le situazioni in cui il testimonial è costretto a dire “Sono Tizio Caio”. Possibilmente da evitare scritte in sovrimpressione che lo identificano. Tradiscono la paura che non sia riconosciuto, e per un testimonial è un controsenso. A meno che il nostro testimonial non sia tale per il suo ruolo o la sua professione, e non perché famoso.

Proiezione o desiderio? Vecchio dilemma: il testimonial deve incarnare il desiderio del target (come si suppone faccia Banderas nei confronti delle mamme italiane) oppure la proiezione di come vorrebbe vedersi (vedi le supermodel arruolate dalle industrie dei cosmetici)? Il meccanismo della proiezione può essere scivoloso, come nel caso del claim di L’Oréal “Perché io valgo”, che detto da Claudia Schiffer sembrava irridere la povera casalinga di Voghera. A peggiorare le cose fu poi aggiunto “E anche voi”, con l’effetto di una pezza a colori.

L’uscita di scena. Il momento più delicato: il vecchio testimonial è diventato troppo ingombrante, o ha alzato troppo le sue pretese; o comunque per qualche motivo il marchio ha deciso di liberarsene. Per non sparire ex abrupto, il vecchio passa il testimone al nuovo (o a un nuovo personaggio anonimo), accomiatandosi dal target con pretesto narrativo. Memorabile fu il tentato sgancio di Vodafone da Megan Gale, semisconosciuta modella australiana diventata troppo famosa, o troppo bella, o troppo esosa, chissà. Fu inventata una complicata storia in cui lei si trasformava in un’anonima bionda, ma il trapasso fu sofferto e lasciò orfani molto italiani. In questi giorni vediamo Mika affiancare Raul Bova in un armonioso ménage a Tre, ma scommetterei che prenderà presto il posto di Raul al fianco di Teresa Mannino (e rischiando di creare un po’ di confusione con Sky/Fastweb, come nota Wired).

mika bova mannino

L’argomento è complesso, e non può essere esaurito in poche righe. Ma una cosa si può ricordare: un’idea può fare a meno di un testimonial, ma un testimonial non può fare a meno di un’idea. E ora, pubblicità.



La politica, senza la politica (III).

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Il prodotto di Beppe Grillo, politicamente e metaforicamente parlando, è un kalashnikov. Una roba che compri solo se sei veramente arrabbiato. Per sua fortuna, di gente arrabbiata ce n’è tanta, quindi c’è grande domanda del suo prodotto e lui lo vende come il pane. Grande fortuna quindi per il brand a cinque stelle e per il suo patron. Unico problema: per continuare a vendere, lui deve mantenere la sua clientela permanentemente arrabbiata. Se fosse anche solo leggermente soddisfatta di qualcosa, è probabile che non comprerebbe più il prodotto, rivolgendosi ad altri marchi elettorali.

Ora, mantenere alta la soglia dell’arrabbiatura non è difficilissimo in questo frangente, ma nemmeno facilissimo. Bisogna essere sempre in campagna, dire sempre di no, continuare a denunciare e sperare che le proprie proposte non vengano mai accettate. Se lo fossero, qualche cliente potrebbe dirsi soddisfatto, e lo share di mercato raggiunto crollare miseramente. Un marketing della tensione, che per definizione non può avere vita lunga.



La politica, senza la politica (I).

È possibile fare una sintetica analisi politica, senza parlare di politica? Senza entrare cioè nel merito delle posizioni e dei giudizi, ma guardandola da un punto di vista tecnico, di marketing e di comunicazione? Voglio provarci, oggi e nei giorni a seguire.

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Lega Nord.
La storica linea di prodotti è stata ritirata dal commercio per colpa di grossolani errori di fabbrica (scandali interni, malfunzionamenti, etichette menzognere etc). Il brand ha oggi una immagine molto scadente nei confronti del consumatore mainstream. Il management della società ha quindi deciso di uscire dal mass market, e riposizionare il marchio. La nuova linea di prodotti sarà per palati forti, e il target sempre più di nicchia. Obiettivo del marketing è quindi quello di uscire a tutti i costi con una comunicazione cruda e provocatoria, che arriva a sostituire il prodotto stesso. Operazione aiutata da un target non troppo sofisticato, e dalle scarse risorse media, che impone un tone of voice fuori dalle righe. Per sua fortuna non esiste un giurì nella comunicazione politica, e il marchio può uscire da ogni ambiguità sulla sua vision, e attivare un comarketing con altri marchi internazionali border-line (Le Pen in Francia). La strategia è quasi obbligata, e a rischio è semmai l’alleanza commerciale con altri marchi family-oriented sul mercato italiano. Il consumatore si accorgerà di questa innaturale commistione sullo scaffale elettorale?


Il tabù dei codici.

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L’insegna è in Via Rosolino Pilo a Milano, zona Porta Venezia. Tutto (i colori, i caratteri, la forma) è dissonante rispetto all’argomento trattato. Per parlare di informatica, trent’anni fa si sarebbe forse usata una grafica modernista, con uno di quegli caratteri tipo Syncro o Eurostile che sapevano già allora di vecchio. Oggi, si userebbe forse una grafica pulita e minimalista tecno-soft alla Apple o Google.

Invece, questo negozio ha scelto una grafica fra il gotico, il tatuaggio e il pub inglese. Creando una dissonanza percettiva così evidente, che ha subito catturato la mia attenzione. E dimostrando una volta di più che rompere i codici si può, e qualche volta si deve.

Il rispetto dei Sacri Codici (caratteri o colori da sempre associati al food, all’high tech etc) è sempre stato un segno di sicura professionalità, e non è detto che non lo sia ancora. Ma talvolta il coraggio di romperli (i codici) può sorprendere, e premiare. E ora, pubblicità.



Le banche, le olive e la difficilissima arte della metafora.

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Devo dirlo, la campagna attualmente on air per la Banca Popolare di Milano non mi convince. Sconta secondo me un difetto di fondo: è costituita da innesti creativi di metafore su metafore, simboli su simboli, e alla fine sfugge qualcosa.

Il meccanismo dell’innesto è un meccanismo collaudato della creatività: si inserisce un elemento estraneo all’interno di una immagine consolidata, e questo provoca sorpresa e straniamento. Ad esempio, se metto uno dei re magi a cavallo di una Harley, introduco un elemento alieno all’interno di un set riconosciuto, e questo è un atto creativo. Ma se faccio la stessa cosa con una foto di amici, il mio riferimento non è più universale e il gioco perde di senso, se non per quei pochi amici che magari sanno che l’amico Tizio non metterebbe mai piede su una moto.

casco borsetta

Nel caso di BPM, la campagna gioca con una serie di oggetti-simbolo (un casco, una borsetta, un mappamondo) fatti di olive verdi. Olive? Perché olive? Ho letto post sgomenti di colleghi creativi, che chiedevano aiuto nel decrittare la simbologia. Facendo un attento percorso a ritroso, si arriva alla conclusione che l’oliva viene dalla forma ovale del marchio, e rappresenta la banca stessa.

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Questo primo passaggio BPM = oliva, già appare critico: 1) con un frutto nato per essere spremuto, e parlando di banche, la metafora è quantomeno ardita; 2) la metafora non è universalmente condivisa: è stato comunicata poco, non ha sedimentato, non ha avuto il tempo di diventare un set riconoscibile. Se il mio cliente fosse stato Apple e avessi usato delle mele (in realtà non l’avrei fatto, perché non è nel loro stile), avrei comunque usato una metafora che è già il marchio, sia nel nome che nel visual. Ma usare un’equazione nuova, una metafora già azzardata per innestarvi sopra un altro simbolo, non funziona. Il percorso semantico BMP = oliva = casco = sicurezza è tortuoso, e di tutti questo è già il più lineare. Già, perché cambiando soggetto cosa simbolizza la borsetta? Non il risparmio. Forse lo shopping? O l’eleganza, o la femminilità?

olive mappamondo

Quando poi arriviamo al mappacuore, il simbolo finale raddoppia e le cose si intricano ulteriormente: l’oliva, simbolo non-universale della nostra banca, si innesta su un mappamondo a forma di cuore. Un simbolo dentro un secondo simbolo, a sua volta dentro un terzo simbolo. L’amore universale? La globalizzazione? La geografia degli affetti? E infine, cosa c’entra questo simbolismo a stadi con il bel payoff “Il futuro è di chi fa”? Il gioco della metafora è intrigante, ma a esagerare si rischia l’effetto Bersani. E ora, pubblicità.