Andate, mescolatevi e create.

photoshop

Quando apro Photoshop – applicazione professionale per il trattamento delle immagini, copia legalmente e salatamente acquistata – appare per qualche secondo una piccola finestra azzurra con la versione del programma e i credit, ovvero i nomi degli sviluppatori che “firmano” il software per conto di Adobe, azienda leader nel settore delle applicazioni per la creatività.

La mia versione del programma conta 68 nomi e cognomi. È interessante leggerli. Di questi, soltanto 41 (il 60% del totale) suonano anglosassoni. I restanti 27 sembrano provenire da ovunque nel mondo. Ne ho contati 8 cinesi, 4 indiani, 3 giapponesi, 2 russi, 2 di antico ceppo inglese, 2 polacchi, un turco, un finlandese, un bulgaro, un malese, un italiano.

È probabile che la maggior parte siano cittadini statunitensi. Probabilmente i loro padri, o i loro nonni sono arrivati in America come immigranti. Altri hanno esotici nomi di battesimo, e questo induce a pensare che siano americani di cittadinanza molto più fresca. Non parliamo di manodopera sottoqualificata, ma di geni informatici che lavorano per Adobe, colosso del software con sede a San Josè, California. Uno dei simboli più recenti – insieme a Apple, Google, Facebook eccetera – della nuova creatività digitale americana, alla conquista del mondo.

Fa pensare quanto allegramente e positivamente contaminata sia la cultura e l’industria americana. Anche e soprattutto quella di punta. E dovrebbe far pensare anche chi a casa nostra, ancora occupa le piazze in difesa di una identità culturale che sarebbe bello immaginare legata a valori profondi, e non al colore della pelle o alla religione.

Cosa c’entra tutto questo con la creatività? C’entra, per il sospetto – o se vogliamo la certezza – che l’omologazione ne produca poca. E che invece la diversità produca stimoli, connessioni, idee nuove. In una parola, creatività. Tutto questo, alla vigilia di un atto con cui il presidente americano Obama intende regolarizzare 5 milioni di immigrati che vivono e lavorano da anni negli USA. Un atto profondamente creativo. È ora, pubblicità.



La maldestra comunicazione degli enti pubblici.

david obeso

Come mai la pubblica amministrazione comunica spesso così male? Nonostante investa talvolta cifre ingenti? Non sarà per l’incapacità di selezionare i suoi partner creativi? Torno sull’argomento dell’ultimo post (le maldestre gare per la comunicazione nella PA). Non certo per esaurirlo, ma per cercare di dare un contributo costruttivo. Chissà che non mi legga qualcuno che decide, nella Pubblica Amministrazione. MI permetto quindi attraverso questo Blog di dargli qualche consiglio.

1. Un’idea non si compra attraverso un centro acquisti. Già il fatto che l’acquisto di una consulenza creativa sia soggetta a un meccanismo di ribasso su base d’asta ha qualcosa che non funziona. Se il fattore prezzo può essere determinante per comprare una sedia o un computer, per comprare un’idea non ha senso. Quello che la PA sta cercando è una consulenza qualificata che è fatta di talento e di esperienza: tutte cose che non hanno un listino a cui fare riferimento, ma che sono invece basate sulle capacità dei professionisti che la prestano. Un ente pubblico sceglierebbe un avvocato con una gara al ribasso sul costo di un’arringa? Ne dubito. A conforto della mia opinione, la Consip (centrale acquisti nazionale per la PA) esclude la consulenza strategica e creativa dai beni acquistabili attraverso il sistema. A differenza di diversi centri acquisti regionali, che invece la includono. Come fare allora per garantire la trasparenza? Comunicare apertamente la selezione, e scegliere l’agenzia sulla base della qualità del progetto. Con una gara non amministrativa, ma creativa.

2. Selezionare con competenza. Se a scegliere e acquistare una campagna di comunicazione è un funzionario esperto in diritto amministrativo, si parte col piede sbagliato. Dovrebbe invece essere un esperto di marketing, magari con esperienze pregresse nel settore privato. Qualcuno che conosca la differenza fra PR, ufficio stampa, advertising; che sappia cos’è un target, un payoff, un piano media, una produzione. Che questa figura non sia prevista negli organici di enti che investono milioni in promozione, è una stranezza. Spesso questo ruolo viene assolto dal responsabile dell’Ufficio Stampa, che sa certamente fare un buon comunicato stampa, ma non sa cosa sia una pianificazione tabellare. La soluzione? Studiare. O farsi assistere da un consulente nella selezione.

3. Non mescolare le voci di spesa. Includere nel costo complessivo (magari soggetto a una gara al ribasso) sia la consulenza creativa sia i costi di produzione sia l’acquisto degli spazi (affissioni, stampa, televisione, digitale eccetera) è uno stupido autogol. Si crea inevitabilmente un conflitto di interesse per l’agenzia, che per migliorare il proprio margine (soprattutto se risicato) sarà tentata di risparmiare sul costo della produzione (realizzazione di foto, spot eccetera) o sull’acquisto dei mezzi. Come? Affidando la produzione a volonterosi amatori, o acquistando affissioni in posizioni defilate, o spot radio a orari impossibili. Si facciano invece quotare a parte i costi di produzione per le diverse proposte creative; e si fissi a monte l’ammontare del budget media da investire, premiando l’agenzia che saprà farlo fruttare meglio. Tenendo ben separato il suo compenso.

E ora, pubblicità.



Natale a Siena.

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Non è l’ennesimo polpettone natalizio, ma fa ridere lo stesso. La trama è la gara indetta dal Comune di Siena per il “servizio di promozione e divulgazione” degli eventi natalizi. Non sarà una megacampagna, ma stiamo sempre parlando di Siena, una città che è un brand conosciuto in tutto il mondo.

Nel capitolato, vengono elencate le attività oggetto dell’incarico: principalmente attività di ufficio stampa (comunicati, recall, conferenza stampa, raccolta rassegna stampa, eccetera). Tutto abbastanza chiaro. A questa si aggiunge la realizzazione di video: non viene specificato quanti, ma devono servire ad alimentare i contenuti dei 7 canali social del Comune, a documentare gli eventi (circa 200) e diventare contributo giornalistico per reti televisive e radiofoniche. Qui sorge il primo dubbio: se voglio partecipare, devo mettere in conto la produzione di audiovisivi. Non so quanti, né quanto lunghi, né dove andranno in onda. Musiche? Speaker? Diritti? Nebbia fonda, e sì che a Siena capita di rado.

Continuando a leggere, mi imbatto nella formula “individuazione dei programmi televisivi e radiofonici, anche nazionali, idonei a promuovere la manifestazione e conseguente attivazione dei contatti per la realizzazione degli spot”. Da qui, procedo a tentoni. Se si parla di “spot” non si intendono redazionali, ma pianificazioni tabellari. Si allude a una pianificazione media? Alla scelta di una casa di produzione? Esiste un budget da investire? E a quanto ammonta, di grazia?

Arrivo infine alla “collaborazione con le radio e le televisioni locali per la realizzazione degli spot idonei a promuovere la rassegna”. Cosa vuol dire collaborazione? Chi fa cosa? Un barlume di strategia di comunicazione? La creatività? La produzione?

Ogni gara d’appalto pubblica prevede un responsabile del procedimento, e questo ingrato onere è capitato al Dott. Guglielmo Turbanti. Il povero Dott. Turbanti è stato informato male, o non è stato informato affatto di come funziona la faccenda. A cominciare dalla terminologia. Ha forse qualche esperienza di Ufficio Stampa (a proposito, il Comune ne ha uno interno, perché non usa quello?) ma zero di produzione, pubblicità e comunicazione.

Da cosa lo intuisco? Da troppe cose, ma soprattutto dalla cifra allocata per l’intero servizio: 9.000 euro. Supponiamo che io partecipi (e vinca) con un ribasso del 15%, diventano 7.650. Un compenso sufficiente forse per la sola attività di Ufficio Stampa (e anche risicato, visto che le conferenze stampa potrebbero anche essere due o tre, come avverte il Capitolato). E gli n video? Li gira uno stagista col telefonino? Massì, siamo in tempo di tecnologie diffuse, questi ragazzi sanno far tutto con niente. E la creatività per gli spot? Ma si collabora con le televisioni private, no? Che ci vorrà mai a farsi venire un’idea? E la produzione, come sopra. Musiche di library, e lo speaker lo fa mio cugino.

Come è evidente – prima ancora che il budget – il problema sta nelle competenze, nel loro valore e, in generale, nella totale assenza di una cultura in materia. Qualcuno dovrà spiegare al Dott. Turbanti che fare comunicazione è un’attività delicata e molto professionale. Che una brutta comunicazione non solo non raggiunge i suoi obiettivi, ma fa dei danni al brand (in questo caso, la sua città) difficilmente risanabili. Che uno spot si può anche girare con un iPhone se dietro c’è un’idea forte, ma che a produrre idee forti sono professionisti della comunicazione, creativi di esperienza e di talento. E che questo talento vale qualcosa di più degli spiccioli che resterebbero in fondo al cassetto (d’altro canto, il fattore “esperienza” pesa per il 20% sul punteggio di gara, a fronte del 40% dello sconto offerto). Sia chiaro, non ce l’ho con Siena né personalmente col Dott. Turbanti, che è sicuramente una brava persona. Casi analoghi affiorano continuamente a ogni livello della Pubblica Amministrazione. Ma perché il pubblico deve fare sempre questa figura?

Le conseguenze? Il Comune di Siena avrà in cambio di pochi soldi un prodotto scadente. E questo non per colpa dell’agenzia che malauguratamente dovesse vincere la gara. Ma perché per rientrarci dovrà fare acrobazie, cercare scorciatoie, accettare compromessi e rinunciare a coinvolgere dei professionisti di livello.

Le soluzioni (per il futuro)? Per cominciare, sarebbe il caso che chi compra un servizio (coi soldi del contribuente), sapesse cosa sta comprando. Se vado al mercato per comprare un diamante con 10 euro e trovo qualcuno che davvero me lo vende, non ho fatto un buon affare: sto solo portando a casa un fondo di bottiglia. Bisognerebbe quindi sapere qualcosa di marketing e comunicazione. Ogni azienda ha un Responsabile Marketing, perché non un brand così importante?

Secondo: sapere chi fa cosa. L’Ufficio Stampa lo può fare un’agenzia di PR, per realizzare dei video giornalistici (e non degli spot) va benissimo un giornalista freelance, per creare degli spot ho bisogno di un’agenzia di comunicazione (o in alternativa, di una coppia esperta di creativi freelance), per produrli di una casa di produzione, anche minima. Troppe professionalità diverse e specifiche, per dividere una torta grande come un pasticcino.

Terzo: resistere all’ingordigia. Se fisso il prezzo del pasto e continuo ad aggiungere piatti al menù, non sono furbo: sto solo obbligando l’oste ad allungare il vino con l’acqua, altrimenti i conti non tornano. Quindi, se il budget è risicato, meglio fare poche cose bene, che pretenderne troppe fatte male. Più che buonsenso, è matematica. E ora, pubblicità.



Orgoglio e pregiudizio.

Fino a pochissimo tempo fa, l’inevitabile origine di ogni prodotto sarebbe stata nascosta dietro un minuscolo Made in China. O ancora più subdolamente, dietro a più misteriosi acronimi come PRC (People’s Republic of China). L’unico plus era il prezzo, ed era in agguato il pregiudizio – spesso ingiustificato – sulla scarsa qualità del prodotto. Ma decisamente, la cinesità non era vanto.

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A giudicare da questo packaging, sembra che qualcosa stia cambiando. La Cina non si nasconde più, anzi rivendica qualità superiore, design, addirittura eleganza. Con orgoglio. Può sembrare un piccolo segnale, ma è una rivoluzione nel valore aggiunto che attribuiamo ai marchi-paese.

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Negli anni ’60, il paese simbolo per tecnologia e affidabilità era la Germania. Imprenditori italianissimi inventavano per i loro prodotti marchi tedescofoni, cercando nel dizionario. Come Gewiss (=lampo) per gli apparati elettrici, o Konig (=re) per le catene da neve. Suonava più affidabile. La tecnologia giapponese era agli albori, e Akio Morita scelse per la sua nascente industria il nome Sony, perché suonava americano, e quindi più avanzato (curiosamente, anni dopo una ricerca dimostrò che il 52% degli statunitensi pensava che fosse realmente un’azienda americana). E non si contano i nomi che suonano italiani sugli scaffali dei supermarket americani, o nella moda. Potenza dei marchi-paese. E ora, pubblicità.



Buona estate.

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Questo Blog va in ferie, e vi saluta con un altro poster della fertile e divertentissima serie “I peggiori commenti fatti dai Clienti”, questo sulla illimitata fiducia nelle possibilità della postproduzione. Aspettando che qualche azienda si decida a produrre un’analoga serie sui peggiori commenti fatti dalle Agenzie, che sicuramente non mancano. Buona estate a tutti, e a rileggerci in settembre. E ora, vacanze.



Il mio primo cliente.

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E’ venuto a mancare Stefano Bonilli. Giornalista e gastronomo, precorse quei concetti di qualità e territorio che oggi sono di moda, ma venticinque anni fa lo erano molto meno. Lo Slow Food non era ancora nato, e lui aveva creato per Il Manifesto un supplemento dedicato al mangiare e bere bene: Il Gambero Rosso. Sdoganando agli occhi della sinistra una cultura e dei valori che fino a quel momento erano sembrati perdutamente borghesi. Il Gambero era Rosso, almeno.

Il Gambero Rosso era uno dei clienti della prima agenzia milanese in cui ho lavorato, la Catullo & Sylwan. Correva l’anno 1990, e la prima campagna stampa che mi fu chiesta fu proprio un autoannuncio da pubblicare sulle pagine interne del Gambero. Me ne è rimasta solo una fotocopia in bianco e nero, e la vedete qui sotto. L’annuncio era molto ingenuo, e il titolo un gioco di parole, come capita spesso ai copy alle prime armi. C’era il coupon da ritagliare, e nonostante fosse un autoannuncio con budget media zero si trovarono il tempo e i denari per commissionare una piccola illustrazione fatta ad hoc. Impensabile al giorno d’oggi.

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Quando al cliente fu presentata la creatività e la mia bodycopy, il direttore creativo dell’agenzia, Guingo Sylwan, mi fece chiamare ai piani alti. Bonilli voleva sapere chi aveva scritto quella pagina, e mi restituì il mio foglio pieno di correzioni in rosso. Da buon direttore di giornale, aveva corretto il mio testo parola per parola. Ero convinto di sapere scrivere benino, e avvampai. La maggior parte erano opinabili sfumature di forma, ma un paio erano proprio errori, che vergogna. Lui rideva sotto i baffi, certamente non aveva voluto umiliarmi ma insegnarmi qualcosa: anche in pubblicità la forma è importante, e la lingua deve essere perfetta, soprattutto se il prodotto è un giornale. Cose che capitano ad avere come cliente uno che scrive di mestiere.

Il mio battesimo del fuoco non ebbe conseguenze spiacevoli. Anzi curai io pochi mesi dopo il lancio di un altro supplemento de Il Manifesto: Arancia Blu, mensile ambientalista. E per la Guida del Gambero Rosso scrissi diverse recensioni di ristoranti. Ma questo mio primo cliente, così esigente, mi aveva insegnato qualcosa. E ora, pubblicità.



Il Cliente ha sempre ragione (2). (autoanalisi)

sharp-suits-worst-client-comment-posters-10Volevo limitarmi a postare una delle divertenti grafiche fatte coi più consueti commenti dei clienti, ma questo (“Saprò quello che voglio quando lo vedo”, un grande classico del nostro piccolo mondo) mi ispira una piccola riflessione. Che è questa: per un’impresa, il momento della comunicazione coincide spesso con il momento della consapevolezza. La sintesi impone delle scelte. Chi siamo? Cosa vogliamo dire? Chi è il nostro target? Ho visto più volte intorno ai tavoli riunione facce attonite di amministratori delegati: ma siamo davvero questo? è davvero questo che vogliamo comunicare? Non è che non ci avessero mai pensato, ma la mission si annacqua nei powerpoint, e la vision si sbrodola nelle presentazioni fiume.

La riunione di brief, il bisogno di focalizzare un solo concetto si trasforma allora in una seduta di autocoscienza. Talvolta drammatica. Ma da questo processo se ne esce spesso con le idee più chiare. Fare una bella campagna pubblicitaria può essere salutare, e avere un valore terapeutico. Anche quando la campagna poi non esce. E ora, pubblicità.



Chi ha detto che la pubblicità non funziona?

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Allungo la mano verso lo scaffale davanti a me nel supermercato. Ecco le mie patatine fritte, le Rustiche San Carlo. Ma vedo sul pack la firma di Cracco, e la mia mano si ferma a mezz’aria. Non ci voleva. Questa storia di Cracco con le patatine proprio non mi va giù. La mano devia, si impossessa di un sacchetto di una private label. Chi ha detto che la pubblicità non funziona?

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Non sono contrario per principio all’uso dei testimonial (ho già espresso qui la mia opinione), ma penso sia il caso di andare coi piedi di piombo. In questo caso l’accoppiata mi sembra davvero tirata per i capelli, come se Bob Dylan volesse vendermi un disco dei Take That. Le patatine fritte sono un peccato veniale, ma mi aspetterei che Cracco le mangiasse con discrezione, senza rivendicarle come ingrediente per “osare in cucina”. Non perché siano cattive, ma perché rappresentano la quintessenza dell’industrializzazione del cibo, in teoria il contrario esatto di quanto va sbrodolando da anni su libri, articoli e programmi in TV. Insomma, non mi convice: la patatina non riesce proprio a cracchizzarsi, è piuttosto Cracco che si patatinizza, e peggio per lui.

Il tentativo di riposizionare l’umile compagna dei nostri aperitivi come rivoluzionario ingrediente di haute cuisine potrebbe essere interessante. Ma dovrebbe essere un’operazione a lungo termine, da spingere con intelligente lentezza, accostandola ai luoghi e alle occasioni giuste. Non basta che me lo dica San Carlo Cracco come fosse il verbo, così non la compro. Testimonial per testimonial preferisco Rocco Siffredi, perché ci trovo almeno un pizzico di ironia – che invece Cracco non conosce. E ora, pubblicità.

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Respiro corto e fiato sul collo.

32 Boccioni - Quelli che vanno degli stati d'animo

Di questi tempi, si naviga a vista. E questo non è un segreto né per i colleghi che lavorano in altre agenzie, né per le aziende committenti. Brevissima avvertenza: quanto segue non si riferisce in particolare a Horace, né ai nostri affezionati clienti, ma vuole essere una riflessione più generale sulla nostra industry.

Fino a pochi anni fa ci si muoveva in un contesto grosso modo stabile. Esistevano dei contratti, spesso pluriennali. Le aziende non facevano gare continue, anche sui singoli progetti. Esistevano le strategie a lungo termine. Esisteva la paziente e coerente implementazione di queste strategie. Soprattutto, esisteva la fiducia. Capitava che ogni tanto un cliente prendesse il largo: gli si augurava buona fortuna, e se ne cercava un altro. Ma al di là di questi spostamenti fisiologici, agenzie e clienti lavoravano in modo diverso. C’erano tempo e risorse per mettere insieme davvero dei bei team di teste pensanti. Si ragionava, si approfondiva, si sperimentava. Si rischiava insieme, fidandosi più del proprio istinto che del cost-per-clic.

cornamusa

Oggi, questo respiro corto sta imponendo alle strutture di destrutturarsi. Lentamente, le agenzie cominciano a somigliare a cornamuse, che si gonfiano di stagisti e freelance quando c’è un progetto, e si svuotano in tempi di magra. D’altronde, quale manager assennato – di fronte a entrate incerte – non cercherebbe di trasformare i costi fissi in costi variabili?

Questo andazzo rischia di farsi davvero sentire sulla qualità del lavoro. Una delle conseguenze più percepibili è che sta scomparendo l’identità creativa delle agenzie. Quello stile riconoscibile dato da una scuola, tramandata da senior a junior, che al di là delle specificità del cliente rendeva percepibile la firma di un’agenzia, il suo marchio di fabbrica. D’altro canto, che identità si può costruire quando le agenzie non sono più guidate dai creativi che le hanno fondate, ma dai CFO delle multinazionali? E quando un’intera generazione di creativi è sparita dagli organici?

La comunicazione sta diventando industria pesante e veloce, bisogna fornire risposte complesse in tempi brevissimi, a basso rischio e a bassissimo costo. La creatività si centralizza, si standardizza e si appiattisce. Le agenzie possono investire sempre meno tempo e risorse nella ricerca, nell’approfondimento, nel pensiero. Al contrario, si destrutturano. E – destrutturandosi – perdono l’anima. E ora, pubblicità.