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Il nuovo che avanza.

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Quelle che vedete sono le offerte di lavoro che fanno capolino in questi giorni su un frequentatissimo blog. I suoi lettori non sono nerd o smanettoni, ma un più generico  “popolo della comunicazione” che riunisce creativi e account, sia dentro le agenzie (sempre di meno) che fuori (sempre di più). Anche per questo, l’elenco dei profili richiesti fa ancora più impressione.

Che l’industria della comunicazione sia in crisi nera, non è un mistero per nessuno, e non è questa l’occasione per ricostruirne i motivi. Sta di fatto che si è liberata negli ultimi anni di circa metà dei suoi addetti, principalmente per cause economiche: art, copy, account, planner, eccetera. Quasi tutti avevano posizioni senior. Molti sono ancora su mercato come consulenti, moltissimi fanno semplicemente altro. I grandi gruppi si sono buttati a corpo morto sul digitale, l’unico comparto che offra in questo momento qualche prospettiva di crescita. Il risultato, è un ricambio generazionale a tappe forzate.

Non voglio storcere il naso davanti a questa accelerata rivoluzione digitale della comunicazione. Anche perché esistono realtà di ottimo livello, che spesso fanno un egregio lavoro in termini creativi e tecnologici. Né sono qui a celebrare i funerali della pubblicità come io l’ho conosciuta, o a rimpiangere i bei tempi andati. L’advertising ha avuto le sue colpe, e questo svecchiamento è per certi versi salutare.

Ma insieme all’acqua sporca, è stato gettato via anche il bambino. Questa decapitazione di massa, insieme a una generazione di professionisti, ha cancellato anche una scuola. Una scuola fatta di tempi, flussi, procedure, analisi, know-how e buone maniere. Una scuola fatta di disciplina, di pensiero strategico, di capacità di visione, di paziente costruzione di identità di marca. Questa scuola, formata in Italia negli ultimi decenni del secolo scorso, sta sparendo per sempre, e qualcosa mi dice che la rimpiangeremo. E ora, pubblicità.



La meraviglia delle idee.

Sapevate che da cinque o sei anni, senza rendervene conto, state contribuendo a digitalizzare il patrimonio letterario dell’umanità?

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Di recente, sono stato a una conferenza TED. Per chi non sapesse di cosa si tratta, è una intuizione che le “buone idee” possano essere messe a disposizione di tutti sulla rete, a gratis (vedi QUI). Una sorta di acceleratore di progresso, e anche un bell’ideale di condivisione del sapere. Si tratta di brevi conferenze, pillole di 18 minuti, preferibilmente in inglese (ha un’audience più ampia), che poi vengono caricate sul sito e messe a disposizione di tutti. Alcune vengono visualizzate milioni di volte, allargando alquanto il classico concetto di “conferenza”.

Ci sono stati due interventi che mi hanno davvero colpito.

Uno era di due ragazzi (un italiano e un italo-israeliano) che hanno inventato una cosa pazzesca. In pratica, un sistema operativo che sta sul chip di una schedina di plastica, funziona su qualsiasi computer, e si porta appresso tutte le vostre applicazioni e i vostri file. In aggiunta, può funzionare da badge identificativo e da sistema di pagamento. In pratica, uscite con quella card in tasca, potete attaccarla a qualunque computer (PC o anche Mac) e vedete la vostra scrivania, completa di tutto. La sfilate, e tutti i dati restano con voi. Il sistema si chiama Keepod, e ovviamente i due giovani geni hanno dovuto spostare la loro sede a Londra, perché qui per avere un pezzo di carta ci vogliono due mesi. E da lì, si accingono a conquistare il mondo.

Il secondo era un intervento (in video) di Luis von Ahn. Avete presente il “captcha”? Quei caratteri che tocca digitare quando si compila un modulo online, per evitare che un programma lo compili milioni di volte? Beh, l’ha inventato lui. Ogni giorno ne vengono fatti 200 milioni in tutto il mondo. Duecento milioni. Una media di 10 secondi a persona, e fanno un totale di 500.000 ore di tempo al giorno. Allora Luis si è chiesto: come potremmo usare tutto questo tempo in modo utile?

Da anni è in atto un processo di digitalizzazione di tutti i libri usciti in epoca pre-digitale. Lo stanno facendo Google, Wikipedia, Amazon, eccetera. Il sistema funziona, ma sui libri più vecchi i sistemi di riconoscimento hanno dei problemi, e non riescono a riconoscere le parole. Perché allora non sfruttare quelle 500 mila ore in cui il cervello umano fa qualcosa che un computer non sa ancora fare? Nella prima versione, i “captcha” erano caratteri e numeri a casaccio. Nella seconda versione “Re-captcha” (adottata da 350.000 siti, da Google a Facebook a Twitter) vengono proposte all’utente due parole di senso compiuto, una delle quali è una scansione che il computer non è riuscito a decifrare. L’altra (non sapete quale) serve come controllo, e suppone che abbiate digitato correttamente anche la prima.

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Con questo sistema, ogni volta che vi autenticate su un sito date il vostro piccolo contributo. Ogni giorno vengono correttamente digitalizzate 100 milioni di parole, il che equivale a 2,5 milioni di libri l’anno che vengono digitalizzati a beneficio dell’umanità. Non è fantastico? La cosa straordinaria è che 750 milioni di persone hanno partecipato a questo progetto, senza neppure saperlo. Fino a oggi, le grandi imprese (dalle Piramidi in poi) hanno coinvolto al massimo 100 mila persone, per l’oggettiva impossibilità di coordinarne un numero maggiore. Oggi, con al tecnologia, si può.

Il nuovo progetto a cui sta lavorando Luis è tradurre tutto il web in tutte le maggiori lingue del mondo. Bazzecole. Ha inventato un sistema di corsi gratuiti di lingue, si chiama Duolingo, e mentre fai pratica traduci un pezzetto di contenuti del web (quotidiani, Wikipedia, etc). Se il progetto decolla, potremmo tradurre tutta Wikipedia in spagnolo in 5 settimane con 100 mila partecipanti, in 80 ore se i partecipanti arrivano a 1 milione.

Qui sotto la sua conferenza, dura 18 minuti ma è affascinante (volendo ci sono i sottotitoli in italiano). Ah, dimenticavo: Luis ha 34 anni ed è Professore di Informatica alla Carnegie Mellon University. Mettete questa storia insieme a quella dei due ragazzi di Keepod, e fate voi la morale. E ora, pubblicità.



Le sirene dell’instant marketing.

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Un mio cliente mi chiama sul cellulare una mattina. Non sono ancora in agenzia. “Hai visto?” mi fa preoccupato. “Ieri il sito ha avuto 72 visite, l’altroieri 95. Che sarà successo?” Il mio cliente è una piccola azienda che fa business-to-business, quindi si tratta comunque di numeri ragionevoli. Rispondo: “Mah, non saprei. Magari ieri sono andati a vedere i siti della concorrenza.” La sua voce si incrina: “Dici?”. Gli ho rovinato la giornata.

Per un altro cliente, abbiamo online una campagna di banner. Lo chiamo: “Hai visto? Ha un discreto impatto sulla homepage, non trovi?” “Sto studiando le statistiche – mi risponde –  Siamo sui 7.800 accessi al giorno, quindi 3.000 più del solito. Però adesso stanno calando. Non puoi chiedere all’editore se toglie il banner, e lo rimettiamo domattina sul presto? E’ l’ora in cui il nostro target si collega. Io sono qui che controllo gli accessi.”

Quello che ho chiamato “instant marketing” sta contagiando il nostro modo di lavorare, e non sempre in modo positivo. Un tempo si aspettavano con ansia gli ultimi dati Nielsen, oggi si guardano con ansia gli accessi al sito, magari in tempo reale. L’ansia non è diminuita, ma sono diminuiti i tempi. La possibilità di monitorare e controllare tutto ci rassicura, con delle belle curve, in cui a ogni azione corrisponde un effetto misurabile.

In tempi di crisi, il bisogno di certezze è comprensibile. Ma ogni speranza di un marketing meno schizofrenico, in cui ogni azione concorra a costruire pazientemente un’immagine di marca, sembra remota. Non sono tempi in cui si apprezza la pazienza, questi. Pazienza.

E ora, pubblicità.