Qualche giorno fa, su Il Sole 24 Ore è uscito un annuncio a firma di Assocom (Assocom è una delle due grandi organizzazioni che riunisce le agenzie di comunicazione). Il suo scopo era sottolineare la disparità di trattamento fiscale di un’agenzia italiana rispetto a una, mettiamo, spagnola. L’annuncio non è particolarmente creativo, ma arriva al punto: a parità di fatturato, di costi fissi e di dipendenti, un’agenzia italiana è matematicamente in perdita.
Uno di problemi è il costo del lavoro, che sta paralizzando ogni possibile mobilità nel settore; questo è un problema comune a ogni impresa italiana, anche se ne risentono maggiormente le piccole. L’altro problema è la struttura dei tributi, e soprattutto l’IRAP. L’IRAP si applica su un imponibile che permette di detrarre i costi per l’acquisto di merci, ma non quelli per le risorse umane (il costo maggiore per un’impresa che vende idee, come un’agenzia di comunicazione). Traducendosi così di fatto in un’imposta sull’occupazione, e discriminando le imprese che vendono consulenza professionale, rispetto a quelle che vendono banane (sia detto con tutto il rispetto per le banane). In soldoni, un’impresa con pochi dipendenti che compra beni materiali e li rivende, a parità di fatturato pagherà molte meno tasse di un’impresa che produce idee, e per farlo investe in risorse umane.
Cosa c’entra tutto questo con la creatività? Eccome se c’entra. Perché se i margini si riducono e scompaiono, le agenzie smetteranno di investire nelle persone, o cercheranno di risparmiare sulla loro qualità professionale (già oggi le agenzie, soprattutto quelle multinazionali, sono piene di stagisti). E la qualità media della comunicazione si abbassa (ve n’eravate accorti, eh?). Chiamiamola allora una tassa sulle idee. E ora, pubblicità.